E così, il 56% degli italiani sarebbe poco o per nulla d’accordo con la proposta di legge di chiudere i negozi la domenica. Lo dice un sondaggio realizzato da Ipsos e pubblicato sabato scorso sul Corriere della sera. Più che le percentuali, l’aspetto interessante della ricerca sta nelle ragioni per cui le persone si dichiarano pro o contro, perché lì si può leggere come è cambiata la società, quali sono le priorità e l’idea stessa di vita. Fra i favorevoli all’apertura, il 49% teme una crisi dell’occupazione, il 27% vi vede una limitazione della libera impresa, l’11% ha paura di una contrazione dei consumi, il 9% non vuole rinunciare a una comodità. Tre motivazioni su quattro sono dominate dall’idea che il posto di lavoro e i consumi debbano prevalere sul resto, mentre una è dettata dalla voglia di avere meno sbattimenti possibili perché, in effetti, sapere che puoi comprare il pane e quant’altro fino alle 20 o a mezzanotte anche la domenica è una pacchia, almeno per chi non deve servirti. Ho avuto con un’amica una lunga discussione sull’argomento. Lei sostiene che i luoghi dove la domenica i negozi sono chiusi sono di una tristezza sconfinata, mentre dove sono aperti la vita pullula di gente.

Un’altra fetta di pro sostiene che numerose categorie già lavorano la domenica, vedi medici, giornalisti, infermieri, autisti di mezzi, ristoratori, attori, albergatori e, quindi, non si vede perché altri dovrebbero esimersi. Potremmo anche essere d’accordo se i turni domenicali e festivi fossero davvero a rotazione, la gente fosse pagata di più e non obbligata a dire di sì sennò perde il posto. E come la mettiamo con quelli/e che hanno figli e devono lavorare tutte le domeniche quando, si sa, le scuole sono chiuse? O con le aziende che cambiano i turni all’ultimo momento e se lavori di notte ti pagano una miseria in più?
L’idea che il lavoro debba prevalere su tutto è la spia di come, il ricatto del O il posto o la vita sia diventato un pensiero primario che ha eroso la capacità di pensare a resistenze o alternative. Se lo shopping diventa una delle principali attività ludiche, significa che si è ristretta la sapienza dell’ inventarsi la vita, ovvero chiacchierare, passeggiare, incontrarsi, dormire, fare l’amore, leggere, andare al cinema, a teatro o a una mostra, bighellonare, lasciarsi trasportare da desideri improvvisi. In fondo, che cosa fa bella e allegra una città? La gente e la gente per incontrarsi non ha bisogno per forza di negozi aperti, ma di idee e desideri.
Uno dei ricordi più forti dei miei numerosi viaggi in Grecia è legato a Florina, la città natale del regista Theo Angelopulos. Era una tarda sera d’estate, ci fermammo nel primo albergo che trovammo, in periferia. La città sembrava addormentata. Uscimmo per cercare un ristorante in centro immaginando una serata tristissima. Incominciammo a stupirci quando, nel cortile di una scuola chiusa, vedemmo un gruppo di ragazzi giocare a pallavolo. Dal fondo della via cominciava a sentirsi un brusio insistente e un baluginare di luci. Appena iniziò l’isola pedonale ci trovammo immersi in un fiume di persone di tutte le età. Erano seduti davanti alle case, attorno alle fontane, sui gradini dei palazzi, nei ristoranti e nei bar, gli unici esercizi aperti, ma, soprattutto, camminavano e chiacchieravano. Tutta Florina era uscita di casa e non perché c’era una festa o una fiera, ma perché avevano voglia di incontrarsi e stare insieme e parlare e discutere e ridere e passeggiare e corteggiarsi e fare tutto ciò per cui siamo nati: non comprare, ma vivere.

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