Due cimiteri si fronteggiano sulle sponde del Mediterraneo. Uno in Sicilia, a Lampedusa, accoglie le spoglie senza nome dei migranti morti in mare. L’altro, in Tunisia, è più un museo di ciò che i flutti hanno portato a terra dopo i naufragi: bottiglie di plastica, scarpe, bambole. In uno il lampedusano Vincenzo tiene in vita una memoria impossibile prendendosi cura ogni giorno delle tombe dei migranti: «ci sono solo io lì con loro», dice. In Tunisia invece Mohsen conserva proprio la memoria trattenuta dalle piccole cose che il mare depone sul bagnasciuga, e infatti nel suo giardino-museo «tutto è vivo anche se sembra morto». In Sponde di Irene Dionisio, passato allo Sguardi altrove Film Festival di Milano, Vincenzo e Mohsen comunicano a distanza attraverso delle lettere, entrambi consci del proprio difficile ruolo di custodi del ricordo e della dignità di persone morte nell’andare incontro all’orizzonte, ed entrambi sollevati dall’idea di non essere soli nel loro compito: «la nostra è una stretta di mano attraverso il mare», osserva Mohsen. A Lampedusa d’estate le spiagge sono sempre piene di turisti, mentre per le strade si manifesta contro la pesante presenza militare sull’isola. Vincenzo è isolato, la sua dedizione quotidiana ai cadaveri di sconosciuti non è vista di buon occhio da molti, ma lui fin dal «suo» primo naufragio nel 1996 continua imperterrito nel compito a cui si è visto chiamato dal momento in cui il Mediterraneo ha cominciato a diventare un cimitero. E il mare tra i due paesi continua a essere affollato da coloro che vanno in cerca del «sicuro sole del nord», il sottotitolo del film. Proprio un sole accecante illumina la sequenza centrale, dove ci vengono mostrati dei migranti su una barca. «È stata girata con un iPhone da ragazzi che hanno fatto la traversata – spiega la regista – l’ho inserita senza fare cambiamenti».

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Come sono stati scoperti i due protagonisti?

Stavo frequentando un corso di documentari a Torino il cui tema era l’alterità, dato che le periferie torinesi sono affollate di stranieri. Facendo ricerca mi sono imbattuta in un articolo di un giornale di Amnesty International che parlava di Vincenzo. La storia mi ha appassionata: mi sono messa in contatto con lui e in seguito l’ho raggiunto a Lampedusa, dove mi ha parlato di Mohsen e mi ha fatto leggere le sue lettere. Così poi mi sono spostata in Tunisia.

«Sponde» mostra un rapporto problematico tra Lampedusa e tutto ciò che riguarda i migranti…

L’isola vive una serie di contraddizioni interne molto forti, ben illustrate dalla storia di Vincenzo che come Antigone risponde a delle leggi diverse rispetto a quelle delle istituzioni e del «senso comune». Mi interessava la sua umanità, questa attività che svolge quasi impulsivamente. I lampedusani sono divisi al loro interno: c’è chi non vuole più parlare di immigrazione perché comporta molte difficoltà, soprattutto ai pescatori. Tanti poi protestano contro la forte presenza militare sull’isola, dovuta appunto all’arrivo dei migranti. Per loro una figura come Vincenzo è scomoda: non tanto perché seppellisce queste persone quanto perché attira l’attenzione, fa sì che si parli di ciò che sta succedendo.

In Tunisia, come racconta Mohsen, non si poteva parlare dei morti in mare durante la dittatura. Oggi la situazione è cambiata?

Ho fatto le prime ricerche quando si era appena conclusa la primavera tunisina che ha portato alla deposizione di Ben Alì. Due anni dopo, quando ho iniziato a girare, si stava scrivendo la prima costituzione del paese. Durante la dittatura non si poteva parlare dell’esodo perché simboleggiava la difficoltà della Tunisia. Dopo le primavere arabe c’è stata un’enorme ondata di partenze, per cui la questione era sotto gli occhi di tutti, ma oggi c’è una diversa sfumatura di censura. Viene ancora condannata, soprattutto dalle forze integraliste presenti in parlamento che vedono la decisione di andarsene come un tradimento e un’emorragia delle forze giovani del paese. Ma molti sono solo ragazzi che vorrebbero poter viaggiare».