Lo street food è la nuova passione dei berlinesi, a dire il vero anche lo scorso anno intorno al Berlinale Palast erano apparsi i camioncini, quest’anno hanno uno spazio riservato in cui si confondono profumi speziati e caramellosi, salati o dolci i prodotti sono rigorosamente bio e fatti a mano in sintonia con il design kilometrozero dei furgoni. Tutto piuttosto caro ma Berlino non è poi quella meraviglia che raccontano.
Come vanno le cose nel cinema? La domanda è quasi obbligata dopo dieci giorni di visioni «forzate», di immagini, storie, invenzioni.

Strange Victory, magnifica copia restaurata (nei programmi speciali del Forum) è stato girato nel 1948 ovvero solo tre anni dopo la fine della seconda guerra mondiale ma già in piena ricostruzione. L’autore è Leo Hurwitz, figlio di immigrati russi negli States, cresciuto a Brooklyn, regista e narratore radicale dell’America «pericolosamente» comunista che aveva denunciato le infiltrazioni nei sindacati del capitale e molto altro, e per questo finito nelle black list con cui il maccartismo mise all’indice le migliori teste del Paese.
La «strana vittoria» a cui si fa riferimento è quella dell’America sul nazismo, Hurwitz utilizza newsreel e archivi, le bombe sulle città tedesche, i corpi scheletrici nei campi di concentramento, i soldati che muoiono e quelli nemici che si arrendono, e vi inserisce elementi narrativi, le uniche parti che escono dal repertorio. La voce off ci racconta la battaglia durissima contro un nemico orrendo.
Poi ecco i visi della gioia, la vittoria, la fine della guerra, la folla unita senza differenze, sorrisi e lacrime di chi ha perso le persone amate, le facce della gente in America, la vita quotidiana nel dopoguerra col ritorno alla normalità. Ma quale? Quella del razzismo che uccide i ragazzi neri, dei fanatici incappucciati che predicano la superiorità della razza bianca, delle entrate e dei bus separati per i cittadini di «colore», dei cartelli che dichiarano minacciosi: questo è un quartiere per soli bianchi?

Il pilota african american che ha combattuto ora non trova posto in nessuna compagnia aerea. «Quanti neri avete nella vostra ditta?» chiede la voce fuori campo. Nessuno, non impieghiamo neri è la risposta. E quanti ebrei? Pochi. Quante impiegate ebree? Non ne prendiamo donne ebree. «È come se il paese dei vincitori applicasse la stessa ideologia di coloro contro i quali ha combattuto dice ancora la voce, cioè i nazisti.

Ma soprattutto Hurwitz ci mostra, e in questo Strange Victory è anche un capolavoro di attualità che i temi «importanti» non devono essere condannati all’accademismo (pensiamo a Selma in sala questi giorni) e ai toni pomposi, la sua dissertazione cruda, violenta nel tono pacato, rovescia la retorica del trionfalismo postbellico, il mito della libertà in una forma che a sua volta sfugge alle convenzioni. Antagonista, di opposizione, in ciò che racconta e nel modo di raccontarlo, che unisce i generi, repertorio, archivi, attori, narrazione.

È la scommessa che attraversa oggi il lavoro di quei cineasti alla ricerca di una cifra «politica» dell’immagine nel magma della rete, delle informazioni (e delle manipolazioni) delle guerre in diretta come le esecuzioni degli ostaggi o la morte dei dissidenti uccisi (è accaduto con la attivista egiziana) dalla polizia e visti da migliaia di occhi morire.
Su questo e molto altro riflette nel suo nuovo film Viaggio nel dopo-storia Vincent Dieutre (Forum) in cui il regista francese sembra per certo aspetti riprendere le questioni aperte nel precedente Orlando ferito. Lì era la Sicilia, e l’opera dei pupi, qui è Napoli e un film che ha segnato la sua vita, Viaggio in Italia di Rossellini.

L’idea è semplice e un po’ folle al tempo stesso: riadattarlo oggi, non un remake però, e certo non solo per una questione di diritti, ma una sorta di ritorno sui luoghi personale, emotivo, che alle immagini di una memoria cinematografica collettiva e condivisa – basta cliccare youtube per vedere il film di Rossellini – intreccia la dimensione personale, la ricerca di un cineasta delle proprie immagini.
Così Dieutre e il suo compagno Simon «divengono» Ingrid Bergman e George Sanders, la coppia inglese a cui il viaggio nell’Italia degli anni Cinquanta rivela la crisi della loro relazione. Come i due originali anche loro si stanno allontanando e giunti a Napoli, dove devono vendere una proprietà, sono sempre più a disagio insieme.

Il linguaggio però cambia, parliamo in modo sgradevole, duro rispetto alla gentilezza di quella coppia, ma forse due uomini devono parlarsi in questo modo adesso, annota Dieutre nei suoi pensieri. La messinscena è dichiarata, si entra e si esce dal film «originale» e dal viaggio emozionale di questa nuova coppia.

Il regista a Napoli ha avuto una residenza d’artista, un’occasione che non si ripeterà così facilmente, i governi tagliano sempre di più sulla cultura gli ha spiegato l’amico responsabile del centro.
Isabella Rossellini preferisce non essere coinvolta nel progetto forse la trasformazione dei protagonisti in coppia gay non la convince? Dieutre si incontra più volte con l’amico avvocato per discutere dei diritti di un’opera d’arte e dei limiti imposti per non violarli. Alle immagini del film di Rossellini si sovrimpressionano altre immagini, scontri con la polizia dei tifosi napoletani, il video che mostra un uomo ucciso a colpi di pistola nel bar dei vicoli.

Napoli oggi e ieri. Le tracce rosselliniane sono inscritte nel presente. Dieutre arriva all’asilo Filangieri, occupato da un gruppo di artisti che fanno attività culturale sul territorio. È una scelta politica la loro nel deserto cittadino. Ecco che dunque il dopo-storia (pasoliniano) del titolo rimanda al contemporaneo, è la domanda insistente che il regista pone a sè stesso, al proprio ruolo, alle immagini, al gesto di fare-cinema: cosa significa documentario, cosa narrazione, anche se i limiti non appartengono al suo lavoro.
E anzi è in questo riappropriarsi bello e quasi spudorato dell’immaginario, saggio, finzione, gioco di specchi che Dieutre afferma la natura politica del suo cinema, la lezione rosselliniana poetica e politica.
Non si tratta infatti di «rifare» un film, ma di trovare le connessioni col tempo in cui lo si guarda, di farlo vivere, di metterlo alla prova, nelle contraddizioni e nei conflitti del tempo.