«Il buffone criminale si è impadronito del trono»: è Rainmaker, dall’ultimo album di Bruce Springsteen, Letter to You.

«Hanno fatto saltare il cervello del re»: Bob Dylan, Murder Most Foul, nell’album Rough and Rowdy Ways: due brani usciti entrambi in questo faticoso 2020. Il primo è una trasparente allusione a Donald Trump; il secondo commemora l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy: il più spregevole e il più venerato dei presidenti degli Stati Uniti, accomunati in un’aura regale.

Che ci fanno queste evocazioni monarchiche, in un paese che si vanta di essere la più antica repubblica del mondo (se non contiamo San Marino)? Cominciamo dall’inizio. Washington Irving, Rip Van Winkle, 1819, uno dei testi fondanti dell’immaginazione americana. Rip ha dormito un sonno magico durato vent’anni. Quando si risveglia, nel frattempo c’è stata la Guerra d’Indipendenza; niente è più lo stesso – o no? Vediamo: «Sull’insegna (dell’osteria del paese,ndr) la faccia rubiconda di Re Giorgio era curiosamente trasformata. La giacca rossa era diventata azzurra e marrone, invece dello scettro il re aveva in mano una spada, in testa aveva un cappello a lucerna, e sotto c’era scritto a grandi lettere ‘Generale Washington’».

Rip Van Winkle non poteva saperlo, ma la prima cosa che avevano fatto i buoni cittadini di New York appena saputo della Dichiarazione d’Indipendenza era stata di buttare giù la statua di Re Giorgio e fonderla per farne munizioni per i fucili dell’esercito coloniale. George Washington commentò che avevano agito con buone intenzioni, ma avevano esagerato.

Anche la rivoluzione americana non è stata un pranzo di gala: quanto fosse audace l’idea di repubblica in un mondo che conosceva solo monarchie lo possiamo solo immaginare. Il radicalismo (reale e «percepito») che espresse quella ribellione – insieme alla memoria della decapitazione di Carlo I nella rivoluzione inglese del 1649 e all’orizzonte della Francia rivoluzionaria, che avrebbe decapitato un altro re di lì a poco – metteva paura alle stesse classi dirigenti che l’avevano voluta e guidata.

Da un lato, dopo averlo evocato, bisognava rimettere sotto controllo il fantasma del potere popolare (di qui, il barocco sistema elettorale di cui vediamo gli effetti perversi oggi); dall’altro, non ci si libera di millenni di storia monarchica senza provare un senso di disorientamento, di vuoto, di perdita del centro.

Tutta la letteratura americana, dall’indipendenza alla Guerra Civile, da Irving a Hawthorne, da Brocken Brown a Poe, è intrisa di fantasmi e teste tagliate. Perciò la sostituzione della testa di un Giorgio con quella di un altro Giorgio sull’insegna della taverna di Rip Van Winkle, come la sostituzione della statua abbattuta del re con lo svettante obelisco del Washington Monument, segna sia una rottura, sia il tentativo di circoscriverne gli effetti. La figura del presidente negli Stati Uniti sostituisce la figura del re, non tanto sul piano del potere personale e delle funzioni politico-istituzionali, quanto su quello simbolico: non solo «rappresenta» la nazione ma, come i re, incarna la sacralità del corpo mistico della nazione.

Anche per questo, a differenza di tutte le altre repubbliche, gli Stati Uniti contano una storia inusitata di presidenti assassinati (Abraham Lincoln, James A. Garfield, William McKinley, John F. Kennedy) o feriti in attentati (Theodore Roosevelt e Ronald Reagan). Ogni volta, l’omicidio politico diventava, nella sensibilità nazionale, un atto rituale che aggrediva l’essenza dell’identità condivisa che la vittima incarnava, e ne riconfermava la centralità.

A loro modo, e in modi molti diversi, sia Trump sia Kennedy hanno emanato una forma di aura sovrana attorno a sé. Kennedy evocava Re Artù con l’immagine mitologica di «Camelot», che estendeva la sua aura a chi gli stava accanto (la figura cerimoniale della first lady quasi non esisteva prima di Jacqueline); Trump evoca anche lui la leggenda arturiana con l’identificazione simbolica fra la virilità del capo e la salute della nazione (pensiamo alla imbarazzante polemica sulle dimensioni della sue mani e quello a cui alludevano) la tendenza alla ricomposizione dello stato patrimoniale che non distingue né fra la proprietà del sovrano e quella dello stato né fra sua la famiglia (figli, figlie, generi) e la gestione del potere. Tutti e due, in forma diversa star mediatici e pop, hanno rivestito anche quella funzione spettacolare che era inerente alle pubbliche uscite dei re.

Ma c’è di più. Questa estate, il New York Times ha dedicato un lungo articolo a Donald Trump, Jr., figlio del presidente in carica e coordinatore delle sue campagne elettorali. Racconta il giornale che quando Donald Trump, Jr., è apparso a un comizio in Iowa, la folla lo ha accolto col grido: «46! 46!». Trump padre è il 45mo presidente degli Stati Uniti; a quanto pare, c’è chi pensa a suo figlio come il suo naturale successore. A differenza della monarchia, la presidenza non è a vita; ma può essere ereditaria.

L’idea della presidenza come istituzione dinastica, trasmissibile a figli, fratelli, mogli, generi è diventata moneta corrente soprattutto dagli anni ‘90 (c’è un precedente nell’800, ma fra John Adams e suo figlio John Quincy Adams intercorrono più di vent’anni) con Bush padre e figlio (e la candidatura di un altro figlio, Jeb), ma anche con Bill e Hillary Clinton e persino con le ipotesi di una presidenza Michelle Obama (io la voterei). E non scordiamoci di John e Robert Kennedy.

Perciò questa volte l’elezione non riguarda un normale avvicendamento democratico, ma la natura stessa dell’istituzione presidenziale e quindi dell’intera democrazia americana. Biden, diciamo in tanti, è una figura scialba, poco carismatica. Chissà, forse però proprio per questo è quello che ci vuole per esorcizzare le tentazioni della sovranità autocratica e ricominciare da un normale laico capo di stato.