Qualche giorno fa su questo giornale Loris Caruso rilevava gli aspetti cesaristi e populisti del governo Draghi. Ma qual è il contenuto di questo populismo? È il populismo di mercato: un’ideologia che cerca il consenso popolare.

E lo cerca “rottamando” i dispositivi che incrinano la sua centralità: l’economia pubblica, i sindacati, i partiti strutturati di massa, i meccanismi di redistribuzione. Tali istituzioni sono infatti viste come puntelli per un’élite politica che tende a favorire soggetti immeritevoli sulle spalle di chi invece garantisce la produzione. Il populismo di mercato enfatizza la società civile, ma intesa non come mutualismo e autonomia sociale, bensì come privato economico contrapposto allo Stato sprecone e come luogo dell’efficienza e della performance preferito ad un impiego pubblico improduttivo e costoso.

La politica stessa è vista come un’attività parassitaria, per cui gli stati devono essere guidati da imprenditori o manager, come fossero aziende. Le diseguaglianze non si possono eliminare, anzi sono necessarie per alimentare la concorrenza, sebbene si possano ridurre ma senza redistribuire le risorse, bensì favorendo maggiormente l’accumulazione di capitale che poi si riverserà sulla base sociale in forma di sgocciolamento: per risolvere i problemi sociali non c’è che l’innovazione e l’incentivo all’impresa e alla produzione come fonti di espansione del godimento consumistico generale. Il posto di lavoro fisso va visto come un intralcio alla libertà imprenditoriale e alla stessa libertà del lavoratore che nella flessibilità esalta la sua vitalità.

Questi valori ormai da tempo egemonici a livello di massa, si sono originariamente imposti con il “populismo autoritario” thatcheriano e reaganiano, che lo coniugava con venature neo-conservatrici, che poi successivamente si sarebbero stemperate nelle versioni più centristiche o anche di centro-.sinistra. Forti componenti populistiche di mercato hanno infatti caratterizzato il berlusconismo, ma anche la Terza via di Tony Blair, il clintonismo e il renzismo, fino al Movimento Cinque Stelle specie di area Casaleggio e il macronismo.

In tutte queste prospettive politiche il populismo di mercato tende ad essere anche populismo aziendale e cioè un sistema di valori orientato alla vita d’impresa, esaltata dalla fantasmagoria postfordista dei mezzi digitali, a cui si ritiene debba essere adeguata tutta la vita in comune. Il new public management mira a riprodurre il modello privato-competitivo anche nelle istituzioni pubbliche, originariamente improntate alla gratuità del servizio alla comunità, all’insegna di una rendicontabilità “responsabile” ancorata a pervasivi sistemi di valutazione prestazionale e processi di qualità spesso di nessuna utilità se non quella di ricordare il dovere di adeguarsi ad un’idea di meritocrazia basata su parametri costruiti sul modello economico dominante.

Ancora una volta l’Italia si fa laboratorio politico globale, testando un governo sostenuto assieme dai sovranisti conservatori e dagli europeisti neoliberali? Esso è nato non solo e non tanto per il capriccio di un leader egocentrico, ma con il preciso significato politico di scongiurare quei pur inadeguati (timidissimi e contraddittori) accenni a prospettive redistributive e attente al bisogno e non al simulacro ideologico del merito, che si erano anche solo affacciate all’ombra del precedente governo (si pensi alla proposta di patrimoniale) e preparare la Restaurazione elitaria-selettiva (Giavazzi, Brunetta, Gelmini etc…) una volta conclusa l’emergenza.

L’esperimento se non altro vale a far comprendere una cosa molto importante: e cioè l’essenza profonda e accomunante fra sovranisti conservatori e europeisti neo-liberali e cioè il culto produttivistico del mercato e dell’impresa: da questo punto di vista una parte del Pd e dei Cinque stelle, Italia viva, Forza Italia e la Lega Nord parlano la stessa lingua.

Un’altra espressione utile per capire il presente è infatti populismo del capitale, con cui si designano quei soggetti politici sovranisti che di fronte alla crisi economica globale non rivendicano tanto un mutamento del modello di sviluppo, né una riduzione delle diseguaglianze, bensì una rivolta del capitale nazionale contro quello internazionale, facendo leva sulle virtù patrie del popolo produttivo e imprenditore (Trump, Farage etc..).

Come tali posizioni non siano nell’essenza profonda opposte a quelle degli europeisti neo-liberali, si comprende bene da un discorso di Victor Orban (pronunciato a Londra nel 2013): per lui lo Stato sociale è un arnese del passato, per cui è necessario sostituire i diritti con una società basata sul merito.