L’attenzione è puntata dritta sulla potenzialità di ciascuno. E non è uno slogan né un concetto astratto, tanto meno un’«attitudine» solo teorica dai risvolti un po’ snob. È, invece, un modo di essere dentro la filiera della produzione, una filosofia imprenditoriale e, insieme, una visione aperta a 360 gradi sul mondo intero. Un approccio diverso al mercato, che permette di coniugare le motivazioni di ogni individuo con azioni reali, concrete. La posta in gioco è altissima: l’occasione di sperimentare una società alternativa al genere homo homini lupus che ci è toccato in sorte.

Cucula-The Refugees Company for Crafts and Design è un collettivo di designers nato a Berlino nel 2013, nel momento clou delle proteste dei migranti che si ribellavano alla loro condizione-ghetto di cittadini reietti: è un progetto sviluppato da Jessy Medernach, Sebastian Daschle e Corinna Sy, in collaborazione con alcuni tirocinanti che hanno lasciato i paesi d’origine a causa di guerre e necessità economica. Arrivati in Germania dal Mali e dal Niger, invece di ridursi a vivere una vita umiliante, alla giornata, priva di prospettive, hanno potuto respirare la brezza del futuro, lavorando, imparando e trasformandosi in creatori di manufatti che intrecciano le loro storie con quelle del design radicale europeo. Nume tutelare di quel progetto, che all’inizio sembrava pura utopia, è Enzo Mari: l’artista ha permesso di utilizzare diciannove suoi disegni di mobili, con relative modifiche e altrettante interpretazioni «fai-da-te». Un buon inizio da cui partire per la nuova avventura, nella speranza di diventare imprenditori di se stessi.

«La parola Cucula – spiega Corinna Sy – deriva dalla lingua hausa, dell’Africa centroccidentale e significa ’fare qualcosa insieme’. Non è stato facile scovare il nome giusto. Quella lingua rappresentava una sorta di legame tra i membri del gruppo, dal momento che la maggior parte di loro proveniva da quei paesi. Sfogliando il dizionario hausa, ci siamo imbattuti in k’ukk’ulla. Ci hanno spiegato il senso: collegamento, agire insieme, prendersi cura gli uni degli altri. L’abbiamo accorciato e voilà, siamo diventati Cucula!».

Viviamo in una società attraversata da troppe disuguaglianze, ma voi avete in mente un’altra «comunità»… Potete spiegarci come la state costruendo?
In testa, abbiamo un modello preciso di società. È chiaro che quella in cui viviamo adesso deve cambiare registro, essere aperta al mutamento in modo costruttivo. Stiamo parlando di integrazione certo, ma per arrivarci bisogna porsi una domanda: «Come?». Siamo legati ancora a una lettura della società romantica e vecchio stile, piuttosto provinciale. Se introduciamo il concetto di integrazione, dobbiamo partire dallo status quo e poi proiettarci verso il futuro, quello in cui vorremmo «abitare».
Un numero crescente di giovani rifugiati provenienti da tutto il mondo sbarca in Germania. Molti hanno perso ogni possibilità di sostentamento nel paese in cui sono nati e vogliono semplicemente potersi costruire un domani. Le loro biografie e i loro percorsi divergono dai nostri e spesso non combaciano neanche con gli standard richiesti qui. Eppure  gran parte di loro possiede ottime competenze, ma il background educativo che sostiene le loro conoscenze è differente dal nostro. È lo scambio, allora, ad acquisire rilevanza. Pensiamo che sia giunto il momento di mettere in discussione strutture, sistemi e comportamenti. Come ha affermato l’artista Olafur Eliasson «la realtà è ciò che creiamo insieme, qualcosa da negoziare».

Cucula è un progetto che non accetta le condizioni in cui si trovano i rifugiati in Germania e si sforza – proprio insieme a un gruppo di loro – di creare un’esistenza alternativa. Cerchiamo di rendere evidente a tutti che, a volte, l’utopia può trasformarsi in realtà. Abbiamo disperatamente bisogno di progetti come questo perché ci aiutano a re-immaginare la nostra società.

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Può fare qualche esempio che spieghi meglio il modo di lavorare di Cucula?
Le biografie di formazione dei tirocinanti sono molto variegate e non rientrano nei canoni formali né rispondono alla burocrazia amministrativa a cui siamo abituati. Puntiamo a sostenere i nuovi arrivati economicamente, socialmente e con la competenza di persone che sanno agire dentro i confini di un modello di integrazione economica e impresa sociale. Siamo una organizzazione no-profit: i soldi che guadagniamo con la vendita dei manufatti, con le donazioni o i fondi vengono poi riutilizzati per sviluppare percorsi educativi. La produzione congiunta offre una prospettiva concreta: la possibilità per i rifugiati di avere una residenza e finanziare la loro istruzione. Cucula è una piattaforma per lo scambio interculturale. Nei laboratori, giovani rifugiati imparano le tecniche artigianali, si allenano con la lingua e sperimentano il funzionamento di un’organizzazione in un contesto reale. Durante le lezioni, il curriculum integrato permette di collegare la pratica con l’apprendimento teorico. Nei workshop, i partecipanti danno vita alle loro idee, rafforzano il loro senso di autostima e scoprono talenti nascosti. Vogliamo garantire una professionalità che possa assicurare una carriera futura, soprattutto a coloro che hanno vissuto un iter educativo diverso, che non viene riconosciuto dal sistema tedesco.
Fondamentalmente, il programma Cucula si compone di due parti. Cucula – Refugees Company fornisce una struttura dove lavorare e nei workshop fa sperimentare la trasmissione della lingua, incrementando al contempo la preparazione professionale. Ora ci sono otto tirocinanti. L’altra sezione si chiama Cucula – Education.
Oltre al processo pratico di apprendimento in laboratorio, si offre un sistema di istruzione modulare: da quella scolastica di base al vocabolario «tecnico», nonché i principi utili per l’orientamento al lavoro e al proprio posizionamento in società. Attualmente, ci sono venti partecipanti inseriti in questo programma. Funzioniamo senza rivenditori, ma stiamo preventivando di ampliare la nostra gamma di prodotti. Mobili e oggetti di uso quotidiano possono rispecchiare, nella loro stessa progettazione, il cambiamento nella società. Cucula combina design di fama, produzione low-tech e principi del fai-da-te.

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Come siete entrati in contatto con Enzo Mari? Perché avete scelto proprio lui?
Tutto è iniziato con un piccolo laboratorio per i rifugiati che stavano in un campo e protestavano a Berlino. Abbiamo fatto nostra l’idea di Mari di costruire arredi semplici e funzionali per le sistemazioni dei profughi. Abbiamo chiesto al designer il permesso di vendere i mobili realizzati dai rifugiati, seguendo il principio espresso nel celebre libro Autoprogettazione? (uscito nel 1974, è stato ripubblicato ora da Corraini, ndr). Gli abbiamo scritto una lettera raccontando il nostro sogno e gliela abbiamo fatta pervenire tramite un amico. Poche settimane dopo, siamo andati a trovarlo. E al Salone del Mobile abbiamo inaugurato la prima mostra.

Rifugiati, non vittime: il vostro progetto di integrazione economica si basa sul controllo della produzione. Naturalmente, designers non si nasce: bisogna studiare, avere una competenza…
L’idea che i rifugiati possano trasformarsi in designers e avere il controllo della produzione è una visione del futuro… la migliore! Per adesso, cerchiamo di offrire stabilità e prepariamo i giovani con un apprendistato. Il laboratorio è gestito da Michael Wolke, un artista che possiede una grande abilità anche nella falegnameria.

Avete applicato prezzi di mercato per i vostri prodotti o avete sperimentato una linea economica accessibile a tutte le tasche?
I prezzi che abbiamo fissato cercano di coprire all’incirca tutti i costi (materiale, ore dei tirocinanti e del capo-laboratorio, noleggio attrezzature, etc). È molto importante per noi mantenere dei prezzi contenuti. Una sedia che costa 250 euro può sembrare cara, ma è fatta a mano e prodotta in Germania. Non può essere messa sullo stesso piatto della bilancia insieme a un qualsiasi pezzo Ikea.