Forse perché non lavora spessissimo, forse perché ognuno dei suoi progetti sembra segnato da una qualità e un’ambizione uniche, forse per l’aura di mistero e di cura ossessiva che li avvolge…c’è un che di kubrickiano nell’opera di Paul Thomas Anderson. E Il filo nascosto porta in sé più di un accenno a Kubrick. Si tratta –specialmente a confronto con The Master e Vizio di forma – di un film da camera, contenuto quasi per intero nello spazio di una townhouse inglese, che l’occhio del regista (è lo stesso PTA dietro alla fluidissima macchina da presa, per un senso ulteriore d’intimità e voyeurismo) trasforma in un rebus di stanze, segreti e gerarchie verticali. Animato da rituali ferrei che si ripetono di giorno in giorno, su una colonna sonora che unisce Johnny Greenwood e Schubert (il Trio di Barry Lyndon) al bisbiglio di donne in bianco che si muovono leggere e palpitanti come colombe, la casa è il laboratorio pratico e mentale dello stilista Reynolds Woodcock.

Il set è la Londra anni cinquanta, una capitale che riscopre il lusso dopo gli stenti e gli sfregi della guerra. Norman Hartnell, Hardy Amies, Viktor Frank Stiebel, John Cavanaugh sono alcuni dei grandi couturier inglesi di quel periodo. Ma – a sentire Daniel Day Lewis, che per interpretarlo li ha studiati tutti – l’ispirazione più grande per il suo Woodcock sarebbe arrivata dalle idiosincrasie, dagli standard impossibili («il maestro di noi tutti» lo definì Dior) e dalle silhouette scolpite del basco Cristobal Balenciaga. Come lui, Woodcock ha regole complicatissime per le sue clienti, non appare di persona alle sfilate (ma le osserva da una fessura nella porta, o da uno spioncino) e come lui pare ispirato da donne che non hanno un corpo perfetto – «gli piace un po’ di pancia», apprendiamo a un certo punto del film. Day Lewis ha collaborato con il regista a partire dalle prime fasi della stesura del film. Woodcock è stato scritto per lui e insieme a lui.

E, fin dalle prime immagini di Il filo nascosto, è chiaro che la moda non è il fine ma il mezzo del film, il cui oggetto (di celebrazione e satira allo stesso tempo) è piuttosto la creazione artistica. Scopriamo gli strati infiniti delle ossessive abitudini in cui sta avvolto il mistero creativo dello stilista già nei suoi rituali del mattino presto – dalla scelta dei calzini, al pettinarsi le sopracciglia, tagliarsi i peli del naso o al fastidio evidente con cui registra il rumore del coltello del burro sul toast da colazione della sua ultima amante.

Ad eccezione di sua sorella Cyril (Lesley Manville), collaboratrice strettissima con l’aura inquietante di una governante hitchcockiana, le donne – lavoranti, modelle, muse – sono per Woodcock degli accessori. Sembrerebbe quello anche il destino di Alma (l’esordiente del Lussemburgo Vicky Krieps), cameriera di una trattoria vicino alla casa di campagna dello stilista che, dietro all’apparente goffaggine dei movimenti e alla facilità con cui diventa rossa d’imbarazzo, nasconde la placida, determinatissima, indecifrabilità di un ritratto femminile di Vermeer.

Se facciamo a gara di chi sostiene più a lungo lo sguardo dell’altro, ti batto – dice la semplice ragazza di provincia al raffinato, viziatissimo, gentiluomo. Come i messaggi segreti che Woodcock inserisce negli orli e nelle fodere dei suoi magnifici vestiti, la cucitura fantasma che s’intreccia, lentamente, tra Alma e Reynolds –anche grazie a un espediente svelato solo dopo la prima metà del film- è impenetrabile per il pubblico. Ne osserviamo le mosse, le strategie, le conseguenze ma – come un amore appartiene solo a chi lo vive – la sua verità rimane invisibile all’interno dei due personaggi.

Tra il serio e un tocco di grottesco, Paul Thomas Anderson (che qui sa un po’ dei viennesi Schnitzler e Zweig e di Eyes Wide Shut), ci chiede nei confronti della loro alchimia, consumata per lo più in non detti e dietro a porte chiuse, un testamento di fede, un salto nel buio. Allo stesso modo –e ancora di più tra il serio e il ridicolo (sia nel suo caso che per Day-Lewis, Il filo nascosto «sa» di un film sfiorato dell’autobiografia) – ci chiede di valutare la sacralità dello spazio intorno al gesto artistico. Perché se questo è sicuramente il film più kubrickiano di PTA, per certi versi è anche quello più vicino a Woody Allen.