Una steppa verde solcata da vecchie strade fatte di pavé che annuncia il plat pays fiammingo cantato da Jacques Brel e dove i resti arrugginiti delle fabbriche svettano come cattedrali tristi sotto un cielo azzurro cupo.
Una landa perduta malgrado si trovi quasi nel centro d’Europa, dove prima la chiusura delle miniere, quindi le delocalizzazioni, infine l’esito incerto del processo di riconversione produttiva hanno evocato fantasmi di fame e miseria di massa degni di un altro secolo. Una regione dove «gli ultimi ad aver lavorato davvero – non parlo dei lavoratori interinali di tre mesi con impieghi che cambiano continuamente, ma dei lavoratori veri, quelli che partono la mattina e tornano la sera, dal lunedi al venerdi -, sono stati i nonni. Anche i genitori non hanno avuto diritti».

LO SCENARIO descritto da Emmanuel Grand in I bastardi dovranno morire (Neri Pozza, pp. 352, euro 18) è quello dell’estremo nord della Francia, un tempo tra i più importanti distretti industriali del continente, trasformatosi negli ultimi decenni in una sorta di gigantesco museo «en plein air» della crisi. Qui, i discendenti degli immigrati italiani e polacchi arrivati già tra le due guerre mondiali, votano sempre più spesso per il Front National, sono le terre che Marine Le Pen ha scelto come proprio quartier generale «sociale» e che il regista Lucas Belvaux ha raccontato nel suo Chez nous.

Si tratta insomma di luoghi e storie personali che indicano senza bisogno di artifici narrativi quanto duro sia lo stare al mondo e quanto cupo e noir possa rivelarsi il tentativo di sopravvivere e tirare avanti ad ogni costo. Ma Grand, un informatico di mezza età cresciuto in Vandea, riesce a dare voce a tutto ciò indicando, se non la possibilità di una riscossa sociale, perlomeno quella di una redenzione morale che coinvolge anche alcune delle pagine più terribili della storia nazionale e l’eco che hanno conosciuto da queste parti. Finendo così per fare di questo suo affascinante esordio letterario una testimonianza cruda e scomoda delle contraddizioni francesi di questi anni.

Intorno alle indagini sull’omicidio di Pauline, giovane tossicodipendente che era ricorsa al prestito di una strana banca online per progettare una fuga dalla cittadina, ex operaia, di Wollaing dove «il 25% degli abitanti sono disoccupati e il 50% alcolisti» e dove «i giovani sognano di diventare calciatori o star della televisione», mentre i loro genitori campano di sussidi e di soldi prestati a strozzo, riemergono infatti le pesanti ombre di un passato dimenticato, o meglio volutamente occultato, e i tanti interrogativi che porta ancora con sé.

SBARCATA nella zona per far luce sul caso, la giovane tenente di polizia di origine algerina Saliha Bouazem, che si muove in un territorio dove gli abitanti dei villaggi sono abituati a dare la colpa di ogni malefatta a «quelli là», vale a dire i giovani beur delle periferie locali, sarà affiancata da Erik Buchmeyer, un poliziotto del luogo gran bevitore e poco incline al rispetto delle regole. Insieme scaveranno negli ambienti della criminalità locale, legata al grande traffico di droga proveniente dal vicino Belgio, ma ripercorreranno anche le tappe del conflitto sociale che ha diviso per generazioni gli abitanti, tra i molti che infoltivano le fila della Cgt e i pochi che servivano gli interessi delle imprese nei sindacati gialli o come responsabili del personale delle fabbriche. Tra questi ultimi, negli anni Sessanta, figuravano tra l’altro anche alcuni reduci delle guerre d’Indocina e dal’Algeria, già responsabili di eccidi e crimini contro i civili.

NEL DIPANARE la matassa dei ricordi e degli odi che si sono sedimentati nel corso del tempo, Bouazem e Buchmeyer scopriranno così che «niente si dimentica davvero e nessun torto resta impunito per sempre». Quasi un monito collettivo per la tragedia sociale di questo lembo di Francia.