Nascita e avvento del fascismo di Angelo Tasca rappresenta senza dubbio uno dei grandi classici della storiografia relativi all’analisi della forma e della sostanza di quell’originale fenomeno politico-dittatoriale emerso, in Italia, dalle ceneri della Grande Guerra. La sua ripubblicazione, ad opera della editrice Neri Pozza (pp. 496, euro 28,00), ricolloca all’interno del dibattito sui «nuovi fascismi» un tassello che aiuta a riordinare la misura contenutistica e del contesto storico nella corretta comprensione del cosiddetto sovranismo ovvero il fenomeno di carattere postfascista emerso come risultante della crisi sistemica dell’ordine neo-liberale della globalizzazione post Guerra Fredda.

IL FATTORE POLITICO di continuità delle tre fasi storiche che connetteva il maggio 1915, la Prima Guerra mondiale e l’ottobre 1922 della cosiddetta «marcia su Roma» esprime in Tasca il rapporto della storia con i mutamenti strutturali delle istituzioni italiane verso la dittatura, da intendersi tuttavia non come esito inevitabile ed «oggettivo» ma come approdo conclusivo verso una possibilità (regressiva) non ineluttabile.

Attorno a questo ragionamento si articola il carattere del fascismo come guerra civile totalitaria (contro il dissenso politico); guerra di classe (come controrivoluzione preventiva indirizzata alla repressione del movimento operaio e contadino); guerra di occupazione (che il regime collaborazionista di Salò avallò su suolo nazionale con l’appoggio all’esercito hitleriano nel 1943-1945). Da questi stessi elementi rovesciati muoverà in termini opposti e progressivi, un ventennio dopo, la Resistenza italiana determinatasi come Guerra di Liberazione; Guerra civile antifascista; Guerra di classe contro i ceti proprietari promotori e fiancheggiatori del regime.

Il tema dirimente dell’uso della violenza fu questione centrale della riflessione politica e della organizzazione materiale della guerriglia partigiana e richiamò ruolo e funzione del movimento operaio in relazione all’uso organizzato e sistematico della forza come misura fondamentale del conflitto politico antifascista. Su questo terreno, ci ricorda l’opera di Tasca, emersero le difficoltà e le remore nello spostare la linea della lotta politica contro il movimento squadrista sul piano dello scontro armato, palesando un punto di contraddizione che anche Pietro Secchia aveva indicato come uno dei limiti centrali dell’azione del movimento operaio nella fase di sviluppo del fascismo. Il dirigente comunista aveva sottolineato come non esistesse «tra i lavoratori italiani una sufficiente preparazione mentale, psicologica e ideale alla lotta armata» e come ciò fosse dovuto all’assenza «nel popolo e nella sua stessa avanguardia di tradizioni insurrezionali». Questo stato di fatto, in ultima istanza, «aveva pesato anche negli anni 1921-1922».

Tesi che riprendevano gli elementi di fondo della riflessione di Angelo Tasca quando quest’ultimo invitava ad aggregare fattore politico e militare come spiegazione composita della vittoria del fascismo: «La rapidità e l’ampiezza del crollo del «sistema» socialista – scrive Tasca – non si spiega interamente con le cause notate fino ad ora» a queste andava aggiunto il carattere di guerra di movimento subito assunto dall’’offensiva fascista contrapposto e vincente rispetto alla guerra di posizione assunta come tratto identitario dal movimento socialista in Italia.

ALLA VIGILIA DELLA GUERRA Tasca sottolineò come proprio attraverso la modulazione di una guerriglia mobile il fascismo fosse riuscito ad avere un’immensa superiorità tramite le «sue possibilità di spostamento e concentrazione basate su una tattica militare». In questo quadro il combinato disposto da un lato dei caratteri dell’aggressione fascista e dall’altro della pressoché totale assenza di attitudine militare nel movimento operaio italiano, determinarono la rapida affermazione dello squadrismo.

I lavoratori erano legati alla terra, alle sedi delle Case del Popolo o del sindacato mentre al contempo «trenta, cinquanta fascisti sono, al momento in cui arrivano, più forti dei lavoratori locali». È un contesto che «lascia al nemico tutte le superiorità: quella della offensiva sulla difensiva, quella della guerra di movimento sulla guerra di posizione».
Si delineava così quella che Tasca definisce «inferiorità psicologica» ovvero diversità antropologica a favore dello squadrismo: «il militante operaio per il solo fatto di tirar fuori la rivoltella dalla sua tasca si pone e si sente fuori della legge, il fascista invece si sente protetto, è sicuro dell’impunità anche quando uccide e incendia».

Sarà solo all’indomani del crollo del regime con l’inizio della Resistenza che questa relazione storica verrà spezzata dalla «Scelta» partigiana delle armi che concluderà la parabola nefasta del ventennio mussoliniano con la sconfitta definitiva del fascismo.

Tuttavia l’opera di Tasca riesce ancora a gettare un ponte dialettico con il presente sottolineando come il solo processo d’impianto del fattore militare non sarebbe stato sufficiente a spiegare le questioni di fondo dell’urto storico con il fascismo rendendo indispensabile, per non ripetere gli errori del passato, chiarificarne il senso e la direzione: «Il fattore militare del successo fascista è diventato decisivo nella misura in cui la classe operaia, il movimento socialista hanno perduto la partita sul terreno politico».

GLI AVVENIMENTI del 1921-1922, dunque rappresentavano il segno di una sconfitta (socialista) più che il termine di una vittoria (fascista) ed in quello stretto interstizio risiede la risposta al riemergere regressivo del neo-nazionalismo di oggi laddove (come insegnano la Resistenza, l’ampia alleanza antifascista e la fondazione della Repubblica costituzionale) è nella risposta del politico che risiede il carattere strategico di ogni contrasto alle ombre brune del passato.