Cosa accade a una bambina di dieci anni, fino a quel giorno credutasi figlia unica, quando, ascoltando una conversazione della madre, scopre di essere nata due anni dopo la morte per difterite di una prima, altra figlia? Questa in poche righe la trama del brevissimo romanzo «L’altra figlia» di Annie Ernaux (L’orma editore). Nelle ottantuno paginette la scrittrice prova a spiegare a se stessa, attraverso l’escamotage di un tu letterario indirizzato alla sorella involata, come sia cambiata la percezione della sua esistenza dal momento della scoperta.
Interrogativi, fantasmi, elucubrazioni. Il confronto con un altro da sé inesistente, senza caratteristiche tangibili, superato in età, altezza, conoscenza, ma insuperabile in termini di amore e dolore luttuoso vissuto, al di là di lei, dai suoi genitori. La narratrice non riesce ad usare neppure una volta il noi, «i nostri genitori», perché non sente con la defunta nessun tipo di condivisione, per via di una assenza manifestata sia in termini di concretezza reale che verbalizzata attraverso spiegazioni familiari mai arrivate, visto che in casa loro, tutta la vita, si è professata la legge del silenzio.

Nel mio piccolo, vanto un episodio similare. Nella grande casa dei miei nonni paterni, 1974/75, invitata a pranzo assieme ai miei cugini, figli delle sorelle di mio padre – due fanciulle più grandi e un maschietto coetaneo – nell’attesa della convocazione a tavola, gironzolo per le stanze (nei miei ricordi) scure, divani di pelle, mobilio di mogano bruno, in alto, sulle alte pareti, ad uso galleria d’arte, una vasta quantità di tele incombono sulla mia limitata altezza. Un quadro mi colpisce oltremodo: una strana donna ospita sulla testa un pesce a pois rosa gialli e verdi su cui sono appoggiati tre spicchi di luna orientale, uno sopra all’altro, a formare una specie di barchetta dalla geometria desueta. Nell’insieme il disegno non è realistico, la signora ha in una mano una coppetta e nell’altra un pugnale. I colori sono accesi, vividi, il mio sguardo si perde nei dettagli. Mi chiamano, è pronto. Passando, accanto al pianoforte che mia nonna suonava con mani dolci venate di blu, della stessa nuance dei suoi capelli sempre freschi di messa in piega da fata turchina, intravedo delle foto-ricordo incorniciate che mi riprometto di osservare meglio dopo quello che, già immagino, sarà un delizioso pasto tradizionale italiano, pasta carne contorno dessert.

Dopo piccoli interrogatori sul rendimento scolastico da parte del nonno, una mia assoluta attenzione allo stare seduta composta e qualche «sì, grazie», finalmente posso tornare a guardare il piccolo altarino nello studio. Tra le cornici mi cerco, invano. C’è mio cugino davanti a una torta di compleanno, la nipote maggiore a cavallo, sua sorella minore che ride prima di tuffarsi in piscina. Di me neanche l’ombra. Ce n’è un’ultima sull’angolo della libreria, provo a girarla e sobbalzo. È effettivamente una bambina pressoché mia coetanea, vestita col tutù da ballerina classica (quanto avrei amato danzare) ma non sono io: per la prima volta vedo in faccia la mia sorellastra che vive al nord, di cui so da sempre l’esistenza, ma che non ho mai conosciuto.

Ricaccio il mio dolore a pungermi dentro il cuore, torno nella stanza-galleria e sollevo gli occhi al cielo. La giocoliera mi porterà via con lei, dove non esistono mezze sorelle, mezze verità, nipoti di serie A e di serie B, ma solo leggerezza, astrazione e libertà di vivere senza regole. (Scoprirò poi, con gli anni, il titolo del quadro di Victor Brauner che mi fu salvifico: «La bateleuse», 1947).

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