Studi di filosofia antica, di Pierre Hadot (Edizioni Ets, euro 28), raccoglie alcuni tra i più importanti saggi del filosofo francese, alcuni dei quali per la prima volta tradotti in Italia da Laura Cremonesi. La miscellanea è in sintonia con una delle massime dello stesso scrittore, riportate nel libro: «In ultima analisi, qual è la cosa più utile all’uomo in quanto uomo? discorrere sul linguaggio, o sull’essere e il non essere? Non è piuttosto imparare a vivere una vita umana?»
La dichiarazione è un manifesto della coerenza intellettuale dello studioso, il quale ha sempre sottolineato che la filosofia è esercizio spirituale per la vita quotidiana, non mero lavoro accademico o sistematico. Hadot mostra fin dalle prime pagine il proprio convincimento: la vera anomalia culturale, nello studio del pensiero antico in età contemporanea, è la sottovalutazione della dimensione interiore del filosofare. Nell’Accademia platonica o durante i lunghi discorsi di Socrate intrattenuti con i discepoli, quanto risalta è la funzione paideutica del discorrere: non si può propriamente parlare di sistema «chiuso» o concluso quando si riflette sulla tradizione classica, non perché non vi siano idee-chiave, o solide fondamenta, ma perché è nel rapporto dialettico tra oratore e uditore che si incarna la verità. Come sottolinea il curatore di collana Arnold Davidson, nella preziosa introduzione, Hadot ci parla di una filosofia che si fa anima e corpo, ben lontana da uno sterile enciclopedismo astratto nel quale il pensiero altro non è se non corpo di testi da studiare.

Il nucleo dominante del testo, conformemente all’obbiettivo dell’autore, si sofferma sui concetti di persuasione e retorica nel mondo classico. Centrale per il raggiungimento della virtù è saperla anche evocare e «tirar fuori», alla maniera di Socrate nella famosa metafora dell’ostetrica. Essenziale a proposito è ricordare la netta distinzione tra tradizione orale e scrittura. Evitare o dimenticare che tra Presocratici, Platone, Aristotele e Neoplatonici si verifichi questo passaggio epocale, vuol dire non cogliere le strategie di insegnamento dei filosofi, all’interno dei loro cenacoli e nella Polis intera. Come afferma Platone nel Fedro, il libro, appena scritto, «rotola dappertutto»: il testo in sé è incapace di difendersi, in balia di ogni interpretazione, facile da manipolare.

Hadot si sofferma, coerentemente, anche su una delle questioni centrali del dibattito filosofico, ovvero il valore dell’insegnamento orale di Platone. La questione è stata ripresa dalla scuola di Tubinga ed ha avuto in Italia un sostenitore nel filosofo Giovanni Reale: il testo scritto dell’Ateniese ha valore esortativo, ed è preludio del vero insegnamento orale, oppure conta solo l’opera cartacea? L’insegnamento comprendeva entrambe le situazioni. La scuola di Tubinga prende troppo sul serio la condanna di Platone della scrittura, così come commettono errori quanti negano la dimensione etica e dialogica della filosofia platonica.
La tesi si rafforza e trova definitiva affermazione quando lo studioso analizza i termini sophos e sophia: nella grecità tardo antica designavano una abilità tecnica, il frutto di una esperienza acquisita, persino di natura politica. Ciò indica che la distinzione tra scienza e saggezza è decisamente più tarda, e l’unità dei saperi è unità virtuosa. Filosofia, appunto.

Il principio d’autorità, in definitiva, è antitetico al retto filosofare. I danni provocati, secondo Hadot, non sono solo d’ordine filologico. Quanto viene a mancare, e pare per il francese l’offesa più grave, è l’impossibilità del progresso interiore di ognuno di noi.

Come sottolinea Wittgenstein, altro autore studiato da Hadot, «Il lavoro filosofico è propriamente… piuttosto un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (e su cosa si pretende da esse)».