«Barry si era liberato dei soffocanti confini della sua esistenza. Gli era stato concesso asilo in America»: da questa situazione paradossale prende le mosse Destinazione America (traduzione scintillante di Katia Bagnoli, Guanda, pp. 391, euro 20,00) quarto romanzo di Gary Shteyngart. Il protagonista, Barry Cohen, che ha costruito la propria fortuna grazie a un hedge fund il cui nome, «This Side of Capitalism», è un omaggio esplicito a This Side of Paradise, romanzo di esordio di Francis Scott Fitizgerald, è precipitato in un abisso professionale e famigliare al quale sembra non esistere fine. Puntando sul cavallo sbagliato – una società farmaceutica rampante e con pochi scrupoli – ha fatto perdere ai suoi investitori più di un miliardo di dollari; come se non bastasse, il suo matrimonio è piombato in una crisi probabilmente irreparabile da quando al figlio piccolo è stata diagnosticata una grave forma di autismo.

A Barry non resta che compiere un gesto di liberatoria irresponsabilità: lasciarsi Manhattan alle spalle e attraversare l’America a bordo dei pullman della Greyhound, nel tentativo di ritrovare la fidanzata dei tempi dell’università, e di ricostruire assieme a lei una vita libera dai vincoli sociali e sentimentali che hanno scandito il suo passaggio all’età adulta.

Costruito con grande sapienza su blocchi di capitoli alternati, nei quali seguiamo il protagonista – in un viaggio che si svolge al contempo dentro un paese e dentro il proprio passato e le proprie illusioni giovanili – ma anche la moglie Seema, che cerca di ricostruirsi una vita accanto allo scrittore di origini guatemalteche Luis e di affrontare l’autismo del piccolo Shiva, Destinazione America è ambientato nel pieno dell’ultima campagna presidenziale, che i coniugi Cohen vedono come l’epitome di un processo di imbarbarimento del quale sono vittime ma, in diversa misura, anche artefici.

Intervistato un paio d’anni orsono sul suo nuovo romanzo, allora in piena gestazione, Shteyngart aveva sottolineato il perché della sua scelta di rendere personaggio centrale il direttore di un hedge fund: «un’occasione per riflettere sulle responsabilità di una classe sociale e di un mondo, quello della finanza, che in buona parte ha voltato le spalle a Trump ma che, a mio giudizio, ha responsabilità pesantissime nella sua ascesa, e nel suo successo».

Rassegnarsi al benessereIl tema delle responsabilità e delle contraddizioni del mondo della finanza trova nel personaggio di Barry Cohen un correlativo perfetto, sospeso com’è tra rimpianti, sensi di colpa e ricerca di un’innocenza che sembra ora perduta, ora sospesa e pronta a riemergere come se nulla fosse, in uno di quei «nuovi inizi» che appaiono consustanziali al mito dell’America.
Nel giro di poche pagine, Barry è capace di tessere un tale elogio della ricchezza e della disuguaglianza da trasformarsi in apologia del «trumpismo» e di rimpiangere il tempo edenico nel quale gestire un portafoglio significava ancora costruire rapporti personali con i clienti. Così si pronuncia, sul divario tra ricchi e poveri, durante la cena nella quale fa la conoscenza di Luis, l’uomo che gli subentrerà accanto a sua moglie: «Sono convinto che la maggior parte dei poveri non saprebbe cosa fare con una somma di denaro consistente. Non dispongono delle necessarie conoscenze e la ricchezza può offuscare la capacità di giudizio. Diciamo che si impara anche a essere benestanti».

La fuga, ultima sponda
Così, invece, commenta la propria parabola discendente, raggiunto dalla segretaria Sandy, che lo insegue di pullman in pullman nella prima parte del suo viaggio americano: «Chi li vuole ormai quelli come me? Non servono più i rapporti umani. Contano solo gli analisti quantitativi e i loro modelli black box. E come fa uno come me a proporre fondi così pieni di algoritmi che non so neanche cosa sto proponendo? Tutto quello per cui ho lavorato non ha più senso».

Soffocato tra il senso di colpa e il vittimismo, l’amore per il figlio autistico e la pretesa di ignorarne la condizione, a Barry non rimane che la fuga, in un viaggio che lo porterà da New York a Baltimora, Richmond, Atlanta, Jackson, El Paso, scandito da una serie di incontri – memorabile quello con un piccolo spacciatore di crack al quale pretenderebbe di insegnare le leggi del capitalismo – che sembrano ora ridefinirlo e aprirgli nuove opportunità, ora precipitarlo nel medesimo, irresponsabile infantilismo che ne ha scandito l’ascesa sociale. «Insomma, stai facendo una specie di Sulla strada personale», commenta Jesse, il vecchio collega e amico che lo ospita a Atlanta: e non c’è dubbio che Destinazione America sia anche una rilettura ironica e spietata del romanzo di Kerouac.

All’innocenza «autentica» di Sal Paradise e dei suoi viaggi subentra l’innocenza reclamata a gran voce e continuamente smentita di Barry; all’umanità derelitta ma irresistibilmente vitale che popolava i pullman Greyhound nel capolavoro della letteratura beat si sovrappone un mondo di sconfitti e di sottomessi. A Barry basta salire sul primo autobus, che lo porterà a Baltimora, per scoprire come l’autorità che il conducente esercita sui passeggeri sia totale e incondizionata. Se nel mondo in cui il protagonista ha vissuto fino ad allora «non potevi esercitare un controllo completo su tua moglie o tuo figlio e nemmeno su molti dei tuoi dipendenti senza che ci fossero delle ripercussioni», l’autoritarismo degli autisti di pullman lo induce a «sospettare qualcosa sul nostro paese… Nonostante l’etica da cowboy individualisti, in realtà obbedivamo tutti a degli ordini, e qualunque cosa dicessimo o facessimo per protestare poteva essere considerata una ’polemica’, e chiunque poteva essere lasciato a terra. Greyhound era come un corpo delle nostre forze armate. E Barry era una recluta».

Ironia alle spalle
Siamo lontanissimi dal mito del viaggio e dello spazio americano come luogo di rigenerazione, e ben dentro l’irrigidimento di un paese che sembra aver perso la capacità di sognare. Quando il protagonista sottolinea come metà del paese voglia solamente «ricominciare da capo» e per farlo sia sufficiente «saltare su un pullman e scappare», o come non sia l’America ad aver bisogno di tornare grande, ma «i suoi apatici cittadini» a doversi svegliare, lo slancio delle sue parole cozza contro una realtà ben più statica e paralizzante.
Per raccontarla, Shteyngart ha rinunciato almeno in parte al travolgente umorismo che contraddistingueva le sue prove precedenti e che qui riemerge solo a tratti, in alcuni pezzi di incontestabile bravura; e ha scelto la via di un romanzo strutturalmente disteso, che mima il movimento costante del suo protagonista nel momento stesso in cui ne smonta i presupposti, e che attraverso Barry Cohen e il suo pellegrinaggio racconta un disorientamento incattivito che appartiene all’America di oggi, e forse non solo.