«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sull’emigrazione». Questa è più di una provocazione. È quanto, concretamente, si è verificato fin dalla nascita della Repubblica. L’emigrazione è parte della nostra storia o, ancora meglio, è la nostra storia. Anche se, nelle scorse settimane, e più in generale negli ultimi anni, l’uso indebito e improprio della storia dell’emigrazione italiana, un uso pubblico certamente falsato, ha aumentato finte narrazioni che, conseguentemente, trasformano e hanno trasformato le percezioni. D’altronde, la migrazione è soprattutto materia di percezione. I numeri, i dati e la realtà contano, da sempre a ogni latitudine, meno di niente. Da secoli, anzi da millenni, l’altro è accusato di essere barbaro, straniero, importatore di criminalità e malattie e di contribuire al disfacimento dell’apparato identitario del paese che lo ospita. «Prima gli italiani», sì, ma nel senso che gli italiani furono i primi a essere accusati dei reati legati alla percezione.
Erano sporchi, brutti e cattivi per i registri di Ellis Island durante l’epopea della grande emigrazione Otto-novecentesca verso gli Stati Uniti; erano macaronì per i belgi fino a quel tremendo 8 agosto del 1956; Tschingg’ per gli svizzeri negli anni sessanta; Spaghettifressser per i tedeschi negli anni settanta. A questo elenco, che potrebbe continuare, risparmiamo le varie espressioni dispregiative coniate dai francesi. Ma torniamo alla nostra «Repubblica fondata sull’emigrazione» per argomentare quella che più che una provocazione è una constatazione.

NEL 1946 l’Italia faticosamente cercava di darsi un assetto istituzionale e, alle prese con la scelta tra monarchia e repubblica, in una condizione di incertezza totale sul proprio futuro, gettò le basi organizzative – in perfetta continuità con il suo passato prima liberale e poi fascista – di uno dei sistemi di esportazione di manodopera tra i più imponenti che la recente storia occidentale ricordi. Le piazze e i bar dei paesini da Nord a Sud vennero letteralmente tappezzati dai manifesti di colore rosa che incitavano e invogliavano a partire per le miniere del Belgio. Parallelamente ai centri di emigrazione, si sviluppò anche la rete dei trafficanti di migranti. Personaggi, cooperative, società di spregiudicati che illegalmente reclutavano nelle campagne e nelle periferie italiane braccia e famiglie da destinare al fruttuoso business della migrazione. Questi disperati a volte riuscirono ad arrivare all’estero illegalmente; spesso, invece, dovettero constatare di essere stati truffati da finti faccendieri. Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia e per la battaglia del carbone in Europa. Molti, dopo i primi mesi, rimpatriarono o furono arrestati per il rifiuto di sottostare alle condizioni disumane per le quali Bruxelles e Roma si erano accordate: 2000 minatori a settimana in cambio di carbone, che però non arrivò mai. Pur di farli continuare a partire, si evitò che i nuovi entrassero in contatto con i vecchi, con quanti avevano sulle spalle il racconto di vicende raccapriccianti.

L’INCENDIO dell’8 agosto 1956 a -975 metri non rappresentò solo l’ennesimo tributo di migranti allo sviluppo economico europeo, ma anche il momento di cesura di un percorso migratorio. Milioni di italiani ormai partivano per la Svizzera e la Francia, mentre il Paese si avviava verso il boom economico che avrebbe oscurato per anni l’emigrazione del secondo dopoguerra. L’Italia per decenni ha raccontato a se stessa e al mondo che era ormai divenuta una potenza economica omettendo, però, il come, il perché e, soprattutto, grazie anche a chi. Eppure, le condizioni nelle quali vivevano e lavoravano decine e decine di migliaia di minatori volontari indotti erano ben note fin dal principio alle classi dirigenti italiane. Parimenti, fu chiaro a quelle dei paesi ospitanti – che entravano in una fase di invecchiamento progressivo della popolazione – che servivano braccia da importare, affinché risorgessero le proprie economie. Fu così per la Francia e le sue colonie fino agli anni Quaranta, come nell’immediato secondo dopoguerra per la Svizzera prima e la Germania poi. Nonostante questa consapevolezza, non mancarono xenofobia e razzismo. Tante storie che cambiarono per sempre i paesi interessati e, parallelamente, l’Italia.

A QUESTO PUNTO sorge spontanea una domanda: dove e quando ci siamo persi? Chi in queste settimane estive viaggia in lungo e in largo per la penisola, chi si reca anche solo per qualche giorno in uno delle migliaia di piccoli paesini sparsi ad ogni latitudine ha modo di accorgersi di come la migrazione sia una costante che ha attraversato i decenni e che ha modificato in nuce la quotidianità di questi posti.
Non c’è borgo, piccolo o grande che sia, che non abbia celebrato o stia per celebrare la «festa degli emigranti», che non abbia almeno un appuntamento d’estate volto a ricordarli o semplicemente una sagra cui prendano parte. Anche se in misura minore rispetto al passato, ancora oggi, in molte realtà da Nord a Sud, si moltiplicano le targhe svizzere, belghe o tedesche di quanti rientrano per le vacanze in famiglia, eppure sembra che si sia creato un cortocircuito con il nostro recente passato, che di fatto è ancora il nostro presente. Non basta ricordare che anche noi siamo stati discriminati, clandestini, criminali alla pari di come siamo stati carne da macello a Marcinelle o 10 anni dopo a Mattmark, tragedia della quale il 30 agosto cadranno i 53 anni. Tutto questo non basta più. Come non basta più la pìetas cristiana.

TUTTAVIA, non dobbiamo stancarci di ricordarlo e ricordarcelo ogni giorno. E insieme a questo, proprio nelle più minuscole realtà, dobbiamo ricordare e raccontare, affinché diventi una grande narrazione nazionale, che l’Italia è tale grazie all’incrocio di popoli, culture e tradizioni diverse. Incontri e contaminazioni di cui ignoriamo in molti casi l’esistenza, dando per scontato o per tipicamente locale qualsiasi ingrediente o abitudine, in realtà importati e stratificatisi durante secoli. Detto diversamente, abbiamo il dovere morale e civile di raccontare che la nostra «italica identità» è ben diversa dall’insieme statico e comunitario nel quale preferiamo rifugiarci. Mentre le nostre vite sono sempre più frenetiche, attraversate e impregnate da grandi sollecitazioni emotive e percettive che ci fanno sentire accomunati ad abitudini globali, pretendiamo di sentirci al sicuro richiudendoci all’interno di steccati identitari rigidi e statici, in un mondo invece in continuo movimento. Movimento che non deve farci dimenticare o non valorizzare da dove si parte, l’odore del basilico della nonna di Arturo Bandini ma, al contempo, proprio questa salvaguardia deve obbligarci a pretendere – 80 anni dopo il debutto letterario di John Fante –, di poter aspettare una nuova primavera di convivenza.

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A Torricella Peligna, dal 24 al 26 agosto

A Torricella Peligna (CH), paese d’origine di suo padre, si svolgerà la XIII edizione del John Fante Festival, dedicato quest’anno all’80° anniversario della pubblicazione di Aspetta Primavera Bandini, romanzo d’esordio dello scrittore.
Tra gli ospiti di quest’anno anche lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi, che interverrà sabato 25 agosto alle 10.30 durante l’incontro dal titolo «Lavorare a tutti i costi – Memorie migranti». Il testo in questa pagina è un’anticipazione del suo intervento. Il programma completo del è disponibile
per la consultazione all’indirizzo www.johnfante.org