Il Corpus iuris civilis (VI sec. d. C.) di Giustiniano è lo snodo genealogico che da un lato segna l’interruzione della tradizione del diritto romano e, dall’altro lato, la continuazione eterogenetica della sua storia e influenza.
Come spiega bene la nuova e ampliata edizione dell’importante libro di Aldo Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente (Einaudi, pp. 586, euro 30), lo ius si è saputo adattare a radicali mutamenti sociali e politici continuando così a disciplinare o quantomeno a influire sulle società non solo occidentali.

L’ORIGINE dello ius è religiosa sacrale e la sua pratica si colloca dentro una dimensione rituale condotta da figure specializzate che nell’ambito della società arcaica, repubblicana e imperiale di Roma afferivano all’aristocrazia patrizia. Proprio il «ritualismo», spiega Schiavone, è il tratto fondamentale e di lunga durata del diritto occidentale. Ritualità formalistica come forza dello ius potrebbe equivalere a dire che esso si consegna a una pratica di gesti che, in quanto tali, non hanno ancora la trasparenza di segnali codificati e la nettezza di significati precisi.

GIUNTA ALLA MODERNITÀ, dopo le grandi ricodificazioni ottocentesche, per Schiavone la ritualità/gestualità dello ius indica il tramonto della sua forza; mentre per Giorgio Agamben, che di recente è tornato sul diritto con il libro Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto (Bollati Boringhieri), la gestualità (declinata alla nozione platonica di «gioco») costituisce una possibilità per superare le aporie del diritto stesso.
La centralità del rito nel diritto romano per Schiavone serve a quietare, scongiurare, prevenire «l’ombra imminente della violenza devastatrice» che incombe sulla comunità. Nell’analisi dello studioso si conferma così il rapporto fra mimetismo di Girard (citato da Schiavone) e prevenzione. In rapporto dialettico con la responsività dello ius, secondo l’autore, vi sono un formalismo e una tendenza alla sistematicità codificante già tutti romani e più influenti delle spinte regolarizzatrici provenienti dalla filosofia e della retorica greche, almeno fino a un certo periodo.

L’ESEMPIO di astrattismo romano più rilevante e antico è quello della lex. Un formalismo capace non solo di separarsi dal caso specifico oggetto del responso e più in generale dal particolare contesto storico, ma in qualche modo anche capace di produrre tecnicamente il caso stesso, in modo da far coincidere in esso la più estrema delle astrazioni e cioè l’indistinzione fra pura casualità e causalità.
L’ambiguità che tutt’oggi conservano le parole caso, causa e cosa – ambiguità che per Agamben, insieme a quella di colpa e volontà, rivela le aporie più profonde del diritto – è frutto soprattutto del salto che compie il ius attraverso l’opera di Quinto Mucio (II-I sec. a. C.), secondo quanto ricostruito da Schiavone. Qui l’ambivalenza del caso, della causa e della cosa introdotta attraverso l’astrattismo degli istituiti e degli enti giuridici trasformerebbe il diritto in una potente tecnologia disciplinare e applicativa: in quel dispositivo implacabile che per secoli e fino ad oggi ha costruito l’occidente e la sua prospezione globale.

Non solo caso, causa e cosa oggi rivelano più che mai le loro aporie e con esse la crisi sempre più profonda dello ius, come si evince dalle analisi di Schiavone (e Agamben). La macchina del diritto produce atti che sono ambiguamente anche f-atti (non distinguendo il facere dall’agere), produce dati che in realtà sono spesso soltanto status (risultati statistici), riduce le possibilità della legge al mero potere che non ha altro fondamento se non la sua stessa forza. Dopo Quinto Mucio e Servio Sulpicio (II-I sec. a. C.) si dispiega quella che Schiavone definisce «ontologia dell’attualità» nella quale l’astrazione pretende diventare il sostrato sul quale si scrive il responso ammantato d’aura sacra.

L’ASTRAZIONE geometrizzante della lex, degli enti e delle regole distribuiti per capita (non a caso il digesto diviso in capitoli diventerà il genere più cospicuo della letteratura giuridica) per riallocare la casistica dello ius. È così che l’antica dimensione sacrale e teologico-politica può apparire, secondo Schiavone, come il frutto paradossale di regole isonomiche.

La vicenda del diritto romano e le sue trasformazioni evidenziano che l’antica sacralità teologico-politica della legge in occidente è anche il portato di una dimensione secolarizzata. Appurata la loro simbiosi, la contrapposizione fra sacro e secolarizzato si rivela meno dicotomica e più complessa di quanto sembra a prima vista.
A ben osservare dalla vicenda del ius, il rapporto fra sacro e secolarizzato ci dice che la loro presunta opposizione è in realtà una relazione mimetica, come sembra confermare il detto di Servio estrapolato da Schiavone, secondo il quale «fin quando rimane identica la forma di una cosa, anche la cosa stessa continua a essere la medesima».