C’è una ragione, forse una in particolare, che ha portato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri mattina nella Sala della Regina di Montecitorio all’affollata presentazione dei due volumi sull’attività parlamentare di Lucio Magri, fondatore de il manifesto poi del Pdup poi ancora fra i protagonisti della prima Rifondazione comunista, deputato dal 1976 al 1994, scomparso per sua volontà non ancora ottantenne il 28 novembre 2011. A raccontarla, questa ragione, in parte a rivelarla, è «l’amico di una vita» Famiano Crucianelli, con Luciana Castellina e Aldo Garzia curatore del libro Alla ricerca di un altro comunismo (2012) con articoli e interventi dello stesso Magri. «Io conosco la storia e so qual era il rapporto fra l’allora onorevole Mattarella e Magri».

La «storia» ha a che vedere con legge elettorale che porta il nome del Presidente, alla quale Magri «prestò una forte attenzione e che fu fertile terreno comune con l’onorevole Mattarella». Il deputato comunista fece parte del gruppo ristretto che discusse intensamente del testo. Un corpo a corpo su una legge difficile da scrivere, a valle del referendum maggioritario votato a furor di popolo qualche mese prima. Poi la difese in aula con realismo: «Questa intesa avrebbe potuto essere migliore, ma con questi rapporti di forza e questo pulviscolo di interessi in campo e sotto la pressione di un’opinione pubblica appassionata ma male informata sarebbe stato difficile fare meglio», disse. Magri, ricostruisce Crucianelli (anche lui all’epoca deputato Prc, poi con Magri uscì dal partito con i ’comunisti unitari’), «si trovò come sempre a discutere su due fronti: quello di una parte consistente del gruppo dirigente di Rifondazione comunista che come una litania riproponeva il proporzionale, con una straordinaria rimozione della realtà; e quello molto più potente del Pds, dei sostenitori dell’ipermaggioritario che intendevano cancellare il sistema dei partiti. La legge Mattarella rappresentava il punto più avanzato: per un verso accettava il verdetto del referendum e per l’altro teneva aperto con quel 25 per cento di proporzionale la possibilità di ridare un senso generale ai partiti e a un tessuto democratico che vive nella partecipazione dei soggetti organizzati». Avercela oggi, quella legge, al posto dell’incipiente Italicum.

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Già da questo brano si capisce che la sala strapiena non è una riunione di reduci accorsi a omaggiare la famiglia e a rimpiangere i tempi andati. C’è, sì, la comunità dei «compagni del Pdup», la breve ma feconda esperienza del ’partito d’unità proletaria per il comunismo’, del manifesto e delle cinquanta sfumature della sinistra di ieri e di oggi, da Nichi Vendola e tutto il gruppo di Sel a Fausto Bertinotti, da Luciano Pettinari a Paolo Guerrini a Lucio Manisco a Franco Giordano, al giornalista Valentino Parlato; il costituzionalista Gianni Ferrara, gli ex sottosegretari Vincenzo Vita e Alfonso Gianni, l’ex europarlamentare Roberto Musacchio; fino a Stefano Fassina, Roberto Speranza, Nico Stumpo e Valeria Fedeli (Pd); ma anche ai cattolici ex dc Gerardo Bianco e Nicola Mancino (dalla Dc proveniva Magri, iscritto al Pci nel ’57 prima essere radiato nel ’69), il già socialista poi Fi oggi Ncd Fabrizio Cicchitto.

Il ragionamento che si sviluppa negli interventi (Laura Boldrini, Gianni Melilla, Paolo Fontanelli, Bianco, Castellina, Crucianelli) a partire dai discorsi del deputato Magri sulla rappresentanza e sulla «democrazia organizzata» (lui, autore di un saggio su «parlamento o consigli» – i soviet – in risposta a Pietro Ingrao sul manifesto del 1970, così definisce quella che ora con formula fessa si chiama ’società civile’) parla dell’oggi. Coglie già «l’avvio della deriva oligarchica», sottolinea nella prefazione dei volumi il costituzionalista Stefano Rodotà. La presidente Boldrini, padrona di casa, riflette invece su ’quel parlamento’: nel ventennio 76-94 «c’era una curiosità per le opinioni diverse, oggi alla Camera non sempre accade». Si intuisce il riferimento alle polemiche degli ultimi giorni.

 

A leggere Magri di fine anni 80 si incrocia l’Italia del 2015. Magri «indignato con il nuovismo che caratterizza lo scioglimento del Pci», non perché «non innovatore» ma perché «considerava un grave errore politico la retorica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Crucianelli). Il bersaglio di ieri è il «nuovismo» occhettiano; ma le parole non calzano bene per «la rottamazione» renziana? A leggere Magri del ’93 si incontra il tormento della sinistra di governo: «L’unica strada percorribile è quella non dell’improvvisa scomparsa dei partiti politici ma delle graduali e progressive coalizioni fra gli stessi con piattaforme programmatiche definite». E cosa c’è di più attuale e più coevo della crisi di rappresentanza della sinistra? «Magri rappresenta un punto di vista, una parte certo di minoranza», dice Melilla, già Pdup-manifesto oggi deputato di Sel, «ma non fu mai minoritario. Amava una frase di Teresa di Lisieux: ’so che niente dipende da me, ma parlo e agisco come se tutto dipendesse da me’».