L’uccisione dell’orsa KJ2, nel cuore di questa estate torrida e siccitosa, funestata dal più alto numero d’incendi boschivi che si ricordi, in un’Italia devastata sotto il profilo ambientale, le cui coste, secondo l’ultimo report di Goletta Verde, sono inquinate per il 40 per centro, ci dona l’immagine emblematica della totale assenza di una cultura ecologica nel nostro Paese.

L’orso rappresenta infatti, come peraltro il lupo, anch’esso sotto il rischio del cosiddetto abbattimento selettivo, quella controparte selvatica che non si accetta, perché pone qualche vincolo, seppur trascurabile, alla pretesa di un totale asservimento antropocentrico del territorio. I grandi predatori, apici di catene alimentari complesse, in grado di favorire la biodiversità ambientale attraverso il controllo di altre popolazioni, diventano così un nemico da abbattere senza riserve, per gli interessi di un’agrozootecnia che ha invaso ogni più piccolo fazzoletto di terra e per quelli dei cacciatori che desiderano appropriarsi in toto della selvaggina.

L’ORSO, IN PARTICOLARE, se sconfina dai margini esigui che gli sono stati concessi, diventa un intruso da sopprimere perché entra in collisione con cercatori di funghi, escursionisti e via dicendo. Non si deve dimenticare, tuttavia, che l’orso, a differenza di Yoghi e Bubu, ha un suo nomadismo di natura e sarebbe stato fondamentale capire bene se il territorio prevedeva quei corridoi ecologici che gli erano necessari. Ma la natura dell’orso è rimasta una leopardiana vaghezza.

Se l’orso è confidente, come s’è detto di Daniza, va abbattuto e se, al contrario, è elusivo, come nel caso di KJ2 va ugualmente abbattuto. Inutile cercare un filo logico o appellarsi al principio di non contraddizione. Sembra una frase estratta da un film di Sergio Leone: quando un orso incontra un uomo, quello è un orso morto.
Già la denominazione alfanumerica, KJ2, mette subito in rilievo il tentativo di allontanare da noi, spersonalizzando, l’espressione di un’individualità che, tuttavia, ritorna quando si cerca di tracciare un identikit del soggetto in questione, profilato come potenzialmente pericoloso. Ma davvero l’orsa KJ2 rappresentava un pericolo così eclatante da rendere indispensabile un intervento di soppressione? I dubbi sono leciti, giacché un orso, che voglia attaccare in modo deliberato, di certo lascia poche chance di sopravvivenza al malcapitato e di sicuro non si limita a qualche graffio.

IL PUNTO È UN ALTRO. Quando si è deciso di dare avvio al progetto «Life Ursus», ricevendo lauti fondi europei per la reintroduzione di questo animale, doveva essere chiaro che non si trattava di Winnie the Pooh, vale a dire che poi si sarebbe dovuti convivere con un mammifero selvatico di grandi dimensioni, con propensioni onnivore e predatorie, dotato di zanne e artigli considerevoli, il cui etogramma prevedeva comportamenti di aggressione per la difesa dei cuccioli, del territorio, a scopo difensivo e di possesso di una risorsa alimentare. Ora, come già in precedenza è stato per Daniza, sono stati proprio tali comportamenti, assolutamente normali, a essere incriminati.

L’orso, come peraltro il lupo, è un animale schivo, che mai e poi mai entrebbe in collisione con l’essere umano se avesse a disposizione un territorio compatibile con la sua ecologia, capace cioè di assicurargli i bisogni di base, come il nutrimento, la riproduzione, l’espletamento della sua natura perlustrativa. Forse, gli organizzatori del progetto nutrivano la pretesa che di colpo l’orso metamorfizzasse in un bel panorama oleografico che potesse rilanciare il turismo e i prodotti autoctoni, fregiandoli con il suo logo. L’orso li ha smentiti e questa è la sua vera colpa, ciò che non gli perdonano. Il punto è che l’orso diventa una cartina di tornasole delle contraddizioni che non si ha il coraggio di affrontare nel rapporto con il territorio e con gli animali selvatici.

L’ORSO E IL LUPO, due animali totemici, che più volte ho definito genitori adottivi dell’essere umano, perché hanno avuto un ruolo antropologico fondamentale nell’ispirarci modelli culturali, oggi sono minacciati prima di tutto dalla nostra incapacità di accettare l’alterità, ciò che non è domesticabile, cui non possiamo sottrarre il valore della diversità.