Un cerchio di luce opaca, in alto, nel buio. Come una luna velata. D’improvviso, dal nulla, un uomo. In piedi, le ginocchia leggermente piegate. Solo, nella scena. Scompare. Riappare. Attonito, cammina a passi guardinghi, cortesi nell’incertezza del moto. Appoggia il suo sguardo aperto sul mondo. Un mezzo inchino di saluto, ripetuto qua e là nello spazio. È l’inizio di The Idiot, l’ultima, sorprendente produzione di Saburo Teshigawara che con la partner storica Rihoko Sato incontra nel linguaggio non verbale della danza un romanzo incandescente e complesso quale è L’Idiota di Fëdor Dostoevskij. Una sfida non da poco per il coreografo giapponese, che il Teatro Comunale di Ferrara ha presentato in esclusiva nazionale in Italia, a ridosso dal successo ottenuto a Parigi al Festival d’Automne, e a pochi giorni dalla presentazione alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano di She, assolo iconico firmato da Saburo per Rihoko nel 2009. Un pezzo che rivela ancora una volta l’autonomia linguistica della danza, traccia nel tempo dalle miriadi di sfumature, miracolo di fluidità imprendibile quanto magnetica.

MA TORNIAMOThe Idiot, a quel mezzo inchino, a quel camminare incerto seguito dall’arrivo in scena di Rihoko Sato, in abito nero, sul trascinante Valzer n. 2 di Shostakovich. Saburo non racconta, apre degli squarci nel libro, finestre su passaggi cruciali. In lui rinasce lo spirito del Principe Myškin, «l’uomo assolutamente buono», completamente bello in senso morale, personaggio cristologico e ideale, in cui la follia, l’idiozia è l’unica possibilità per vedere realmente il mondo. Quel mezzo inchino ci trasporta in un soffio all’arrivo di Myškin in Russia, Sato è la bellezza violata di Nastas’ja Filippovna, il valzer, che tornerà più volte, fa scorrere la memoria attraverso le pagine, come se l’incontro tra Saburo e Rihoko, senza narrare, ma attraverso il solo linguaggio del corpo, avesse la capacità di far viaggiare il pensiero dentro Dostoevskij.

L’IDIOZIA, la follia del titolo respira nel movimento di Saburo, più disarticolato ancor del solito, con quello spostamento rapido avanti e indietro del bacino, della testa, delle ginocchia, sul piano orizzontale, ma anche con quella luce fissa nello sguardo, che combina follia e chiaroveggenza. Sato ha un flusso avvolgente, ora prendibile ora assente nella consapevolezza di un altro percorso nel mondo da quello di Myškin, seppure a lui legata. Tra i due la presenza nell’aria di Rogožin, il diabolico, rozzo, violento, l’opposto, ma anche il doppio di Myškin: lo si sente sempre lì, seppur non in carne ed ossa, come in trasparenza sembra apparire a tratti l’ombra di Aglaja.

PER LA FINE, nel collage musicale composto da Saburo, c’è La Morte e la Fanciulla di Schubert, mentre l’ossessione del gesto omicida di Rogožin su Nastas’ja si placa. E in questo gioco di ombre e di corpi reali, torna al termine, andando al di là del romanzo, Rihoko/Nastas’ja: come se la morte non fosse, in fondo, mai lo sprofondamento nel nulla, ma una presenza in un altro tempo nel quale, forse, riconoscersi.