È una bella sorpresa, rispetto alla «tradizione» creatasi negli anni attorno a Winnie, la protagonista di cui Samuel Beckett ha reso immortali i Giorni felici, e che ora sul palcoscenico del Metastasio la regia di Massimiliano Civica ha trasformato in direzione decisamente opposta. Siamo abituati a vederla come creatura se non tragica di certo dolente, chiusa in quel cumulo di sabbia che nel finale arriverà a stringerla alla gola. In ogni caso interdetta, per qualcosa di terribile che deve esserle successo, e che lei tenta con difficoltà di ricostruire o di esorcizzare con le sue parole solitarie e scomposte, anche se mimano una qualche normale quotidianità.

QUELLA SIGNORA è un affondo impressionante, a tratti perfino raggelante, dell’intera umanità, che Beckett, con la sua abituale, crudelissima «discrezione» tratteggia in quel ritratto di signora. Un testo non solo da premio Nobel, ma anche da Oscar, perché non a caso con lei si sono cimentate molte grandi attrici, e i massimi registi. Dalla Winnie dello sguardo di Pier’Alli interpretata dalla mitica «Bartolomei», alla shakespeariana Natasha Parry condotta dal marito Peter Brook, e Giulia Lazzarini con Strehler, e con Bob Wilson Adriana Asti. Ma per la prima volta qui, Winnie è una irrefrenabile «comica»: le parole di Beckett non suonano affatto ridicole, ma ridanno alla creatura una umanità nient’affatto scontata. Tutti i discorsi che lei si applica a condurre, con tutti gli artifici e le smorfie e gli occhi sgranati della leggerezza, suonano forse perfino più drammatici di altre volte.

MASSIMILIANO CIVICA infatti intuisce e scopre in quel testo l’essenza e la sintesi di una commedia, se non proprio «all’italiana», ma quasi. Ne scava le contraddizioni e gli imbarazzi, le illusioni e le frustrazioni, il continuo incessante rincorrere un «senso» attraverso le parole, da cui quella creatura femminile possa in qualche modo essere appagata. Monica Demuru affronta impavida la complicazione del personaggio, e supera brillantemente la performance riuscendo a rendere brillante (non certo nel senso di «allegra») quella creatura così complicata e così scoperta. Una operazione di tutto rispetto, su un palcoscenico ove troneggia una sorta di igloo di pietra, una vera prigione ma anche un mondo rassicurante di parole. A disegnarlo è stato Roberto Abbiati, che costituisce, su quella scena da frigido luna park, il suo muto e preferibilmente dormiente alter ego maschile.