Una giovane donna con il sorriso aperto, senza trucco, i capelli sciolti, jeans e maglietta. Nel braccio sinistro, il recente tatuaggio mostra la faccia di una donna nera. Sulla spalla, alla bretella dello zaino è agganciata una bambola di stoffa marrone con i capelli gialli. Nella valigia ci sono diverse magliette uguali a quella che indossa, tutte nere, con le parole in portoghese: «Lotta come Marielle Franco». Così l’architetta e militante Mônica Benício, 32 anni, che fino a pochi mesi fa non aveva nemmeno il passaporto, è atterrata a Lamezia Terme per assistere allo spettacolo «Cria da Maré – una donna, il potere, l’amore» (di Anna Macrì e Confine Incerto), ispirato alla vita di Marielle Franco e presentato al festival Armonie d’Arte la scorsa settimana. Dopo il fatidico 14 marzo, Mônica, da che era una giovane sconosciuta di origine umile, è diventata un’importante voce nella lotta per i diritti umani e per ottenere giustizia nel caso di Marielle.

Per 14 anni, Mônica è stata la compagna di Marielle Franco, consigliera comunale che sosteneva i diritti delle donne, la popolazione delle favelas e la comunità LGBT+ a Rio de Janeiro. Marielle è stata uccisa a colpi di arma da fuoco il 14 marzo insieme ad Anderson Gomes, il suo autista, in un crimine senza precedenti nella città. La storia d’amore delle due donne nate nella favela «Maré», che è iniziata con la vergogna e il rifiuto delle famiglie, si è intrecciata con la loro traiettoria di attivismo politico: «Mônica nell’attivismo di strada e Marielle sotto i riflettori», come dice l’architetta.

Nonostante le recenti minacce, denunciate anche presso l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), Mônica viaggia da sola per rispondere agli inviti che si moltiplicano, a scapito della sua vita personale. Negli ultimi mesi è stata alla Camera dei Rappresentanti per la votazione dei progetti di Marielle, nel 2° Forum Latinoamericano del gruppo femminista La Garganta Poderosa, a Porto Alegre, a Brasília, Curitiba e in altri incontri in Brasile e fuori.
La bambola che porta con sé si chiama «Mariellinha» ed è un regalo di un’amica. «È un modo per portarla con me, per farle vedere tante cose che Marielle non ha potuto vedere. Abbiamo viaggiato poco insieme», dice Monica,nel suo accento caricoca e senza formalità.

Dopo la morte di Marielle, non ti sei concessa un periodo di lutto mai hai iniziato una battaglia.
Io e Marielle condividevamo il sogno di costruire una società diversa. Il modo più naturale e facile sarebbe stato quello di vivere il lutto, ma con la mia storia di vita, la strada più facile non è mai un’opzione. Avevo bisogno di cercare risposte, di mostrare cosa fosse successo ed esercitare pressione sulle indagini per arrivare a un risultato. Non sto parlando di vendetta. In questo caso dobbiamo avere giustizia per una ragione ovvia, che è mantenere una garanzia di stato democratico. Se non abbiamo una soluzione, ammettiamo che viviamo nella barbarie.

In alcune interviste hai detto che sei passata dall’essere un attivista «di strada» a un nuovo ruolo.
Sono una militante da quando avevo 17 anni. Sono andata alle manifestazioni, ho partecipato ai dibattiti, ma non avevo una mia voce, era una voce collettiva. Ora è diverso, io do voce a un collettivo. Quando prendi il microfono e hai il riflettore su di te, diventi un rappresentante di una parte della società. L’attivismo da solo non risolve i problemi. Ad esempio, in Argentina, le donne che hanno marciato (per chiedere la legalizzazione dell’aborto) hanno fatto la storia, ma al momento del voto al Senato, hanno perso la battaglia. Se la proposta è quella di mantenere uno stato democratico, rivendichiamo il diritto di esprimerci liberamente, ma abbiamo bisogno che chi ci rappresenta in Parlamento risponda in modo appropriato, dandoci voce.

In questa lotta, quanto appartiene a te e quanto rappresenta l’«eredità di Marielle»?
Il crimine del 14 marzo è stato un atto per intimidire e ridurre al silenzio: ha avuto l’effetto contrario. Penso che l’eredità di Marielle sia l’aspirazione di ogni donna che combatte contro il maschilismo, di ogni persona nera fiera della propria pelle, di chiunque si senta indignato per la sua morte. È un’eredità collettiva. Noi due abbiamo condiviso molte idee avendo la stessa origine nel Maré e storie simili, per avere vissuto un rapporto lesbico. C’erano molte difficoltà in questo contesto e indignazione nel vedere questa città in cui pochi avevano così tanto e tanti non avevano nulla. In molte manifestazioni eravamo insieme già prima che lei diventasse consigliere comunale. Con Marielle, tuttavia, ho imparato a superare la paura e la timidezza per occupare questo nuovo luogo di parola dove mi trovo ora.

Quali sono i tuoi riferimenti politici e culturali?
Ultimamente ho letto i libri di Angela Davis, perché si occupano non solo della questione della «razza», ma anche delle tematiche femministe. Ho anche trovato bellissimo Calibano e la strega di Silvia Federici perché presenta diversi parallelismi tra il modo in cui le donne accusate di stregoneria sono state trattate e come le femministe sono viste oggi. Molti hanno paura del femminismo perché pensano che sia l’opposto del maschilismo. Ma se fosse così, non sarei femminista.

Hai seguito il modo in cui i migranti sono trattati in Europa? I porti chiusi in Italia?

Notizie come queste mi sconvolgono. Ho detto al governatore di Rio de Janeiro, Luiz Fernando Pezão che ha del sangue sulle mani fino a quando l’omicidio di Marielle non sarà risolto. Ed è la stessa cosa quando qualcuno chiude le porte del proprio paese e lascia che le persone muoiano. Questo vuol dire uccidere. C’è un’ondata preoccupante di conservatorismo non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Questi politici non mascherano il loro razzismo e la loro omofobia: è chiaro che uccideranno i poveri, gli immigrati, le donne, gli omosessuali. Ciò che mi preoccupa non è quello che propongono, ma il perché vengono eletti.

Perché Marielle è stata uccisa?
Ancora non lo sappiamo. Era molto combattiva, ma era consigliera da soli 15 mesi. I progetti da lei proposti sono stati approvati solo dopo la sua morte. Quindi chi poteva sentirsi così minacciato da lei, al punto di elaborare un omicidio sofisticato e costoso? Come ha affermato il ministro della Sicurezza Raul Jungmann, questo crimine ha coinvolto agenti statali, personalità politiche. Si presume che sia stato commissionato al cosiddetto «Ufficio del Crimine», un gruppo di mercenari composto sia da ex agenti di sicurezza chh da altri ancora in attività. Non sono preoccupata per chi ha premuto il grilletto, la motivazione di tutto questo è ciò che mi toglie il sonno. Ad ogni modo, è lo stato brasiliano che ha ucciso Marielle. Uno stato che dice che una donna nata in una favela, nera, povera e lesbica può essere uccisa, anche se ha un ruolo istituzionale. È un sistema che legittima e consente la violenza.