Negli oltre trent’anni trascorsi dal biennio 1989-90, il cosiddetto «romanzo della riunificazione» sembra essere ormai assurto al rango di genere letterario. Da Grass a Seiler, da Tellkamp a Ruge, da Brussig a Hettche fino a Monika Maron, molti sono stati i narratori che si sono cimentati con quella tematica cercando di illustrare gli innumerevoli aspetti di un avvenimento che – per una volta – non appare esagerato definire «storico».

AGLI AUTORI di lingua tedesca che hanno raccontato la Wende si aggiunge ora la francese Christine de Maizères (1965) che, con questo suo primo romanzo dal titolo Tre giorni a Berlino (Clichy, pp. 179, euro 17), ci offre un’opera corale e polifonica: costituita cioè da una pluralità di punti di vista attraverso i quali i tanti personaggi – tra paura, stupore, felicità, entusiasmo – esprimono le proprie emozioni.
Il titolo fa ovviamente riferimento alle giornate del novembre 1989. La narratrice immagina vite e destini che si intrecciano e mescolano, piccole storie che vanno a confluire nella Grande Storia; singoli individui che, nel corso di quelle ore concitate, si trovano non soltanto ad assistere alla caduta del Muro ma anche – in varie maniere – a contribuirvi diventando così attori del dramma che sta avendo luogo. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si accalcano per le strade della metropoli tedesca dirigendosi poi verso i posti di frontiera formando, nel contempo, una folla risoluta, compatta, gioiosa e pacifica in grado di travolgere qualunque ostacolo le si pari davanti. Una moltitudine che sembra, insomma, aver perso ogni timore: «Una selva di mani alzate. Non pugni chiusi per la rabbia o la menzogna. Sono finiti i giorni dei pugni alzati per obbligo in quarant’anni di sfilate imposte. Sono mani che tornano all’infanzia, mani aperte, mani offerte, mani agili, espressive, mani che applaudono, carezzano, toccano altre mani, circondano le spalle del vicino. Mani che si alzano per afferrare il vento di libertà che soffia questa notte». E migliaia di voci che gridano a squarciagola: «Tor auf! Wir kommen wieder!».

VA RIBADITO come Christine de Mazières abbia scelto di narrare gli eventi accaduti nel corso di quei giorni mediante la descrizione dei diversi stati d’animo che caratterizzano i personaggi del romanzo riuscendo, in questo modo, a darne una rappresentazione efficace e suggestiva.

SEMBRA IMPORTANTE, inoltre, mettere in rilievo come il suo racconto esponga sia l’esultanza di quanti festeggiano il crollo della Ddr sia le reazioni di chi intende restare fedele allo «Stato degli operai e dei contadini»: il testo presenta così una complessità davvero apprezzabile.
Caratterizzato dalla prosa scorrevole, dal lessico essenziale e incisivo, dalla varietà dei registri espressivi e dal plurilinguismo, Tre giorni a Berlino colpisce anche per alcune immagini che – rese magistralmente dall’autrice – sembrano destinate a rimanere impresse nella memoria del lettore. L’ininterrotta sfilata delle Trabant e delle Wartburg che oltrepassano il confine, la cinepresa di uno studente che coglie i sorrisi stampati sui volti delle persone assiepate a pochi metri dai posti di blocco, le urla gioiose di quanti continuano a non credere a quello che stanno vedendo, la folla che dà la scalata al Muro, lo sguardo spento e attonito dei Vopos: volti incapaci di parlare, individui travolti dal corso degli eventi, famiglie ricongiunte dopo decenni nella Berlino tornata, finalmente, a illuminarsi.