Nel disastrato cinema italiano per fortuna resiste una zona franca, un significativo limbo occupato da autori discreti e interessanti, poco sponsorizzati, che fanno un cinema di più ampio respiro, non promozionale e strombazzato, autori che vanno per la loro strada gratificati da un pubblico e una critica non ancora «ostaggi» di un’italianità provinciale e transitoria. Uno di questi è Roberto Andò, autore dallo sguardo europeo che si muove da anni con bella disinvoltura tra cinema, teatro, lirica e narrativa, raccontando per lo schermo in forma di fiction o documentario storie intime, segrete, intellettuali e raffinate (Il manoscritto del Principe, Sotto falso nome, Viaggio segreto, Viva la libertà) e mettendo in scena testi di grandi autori internazionali. Il regista palermitano recentemente ha presentato in anteprima al Napoli «Teatro Festival Italia» ed è appena stato in scena alla Milanesiana Good People del drammaturgo americano David Lindsay-Abaire.
Hai già partecipato alla prima edizione del Napoli Teatro Festival sette anni fa.
Sono venuto a Napoli nel 2008 per la prima edizione del Festival con uno spettacolo molto ‘napoletano’ intitolato Proprio come se nulla fosse avvenuto tratto da Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese e ora ci sono tornato con un testo molto anglosassone.
In «Good People» si parla della classe operaia. In Italia registi, autori teatrali, scrittori la raccontano poco, forse perché è poco visibile e vendibile.
È vero in Italia non si parla molto della classe operaia, ci sono stati episodi interessanti come il sottoproletariato di Franco Scaldati, ma sono episodi, non c’è una continuità, una tradizione, oggi si battono strade più metafisiche post-beckettiane orfani un po’ del realismo di Eduardo. Eppure l’argomento di Good People è di grande attualità: il lavoro. Non è un caso che la storia è in qualche modo simile a quella del film dei fratelli Dardenne passato all’ultimo Festival di Cannes con Marie Cotillard nel ruolo di una donna che ha perso il posto. Qui la situazione è simile: c’è una donna licenziata che cerca disperatamente di trovare un’altra occupazione. Sono stato subito colpito dalla forza espressiva della pièce, ambientata nei quartieri ghetto di Boston i cui protagonisti Margie e Mike sono interpretati da Michela Cescon e Luca Lazzareschi. È un efficace squarcio di realismo anglosassone con Margie, cassiera in un supermercato, che viene licenziata per i continui ritardi, giustificati dal fatto che ha una figlia con un grave handicap. Il resto della pièce racconta il suo tentativo di trovare un altro lavoro. Margie è un personaggio che nella letteratura teatrale contemporanea capita raramente. Qui non ci sono atmosfere metafisiche e surreali, ma c’è un racconto, la storia di una donna della classe operaia, una eroina capace di esprimere un amore puro, quello per la figlia ammalata, un’ eroina moderna proprio perché per lei non c’è redenzione.
Quale soluzione registica hai scelto?
Assecondo la vicenda scegliendo un teatro asciutto, senza fronzoli, in grado di riprodurre il dolore, ma anche l’ironia e gli umori umanissimi dei personaggi. Lo spettacolo è prodotto dalla stessa Cescon con la sua società, lei ha letto il testo in inglese e me lo ha sottoposto. Un testo che sulla ribalta di Broadway e a Londra ha avuto interpreti prestigiosi come Frances McDormand, la moglie di Joel Coen, e Imelda Staunton e s’inserisce nel solco di quel realismo operaio che ha una tradizione nel mondo anglosassone il cui maestro è considerato Ken Loach.
Citi sempre i due maestri che maggiormente ti hanno influenzato: Sciascia per la scrittura e Rosi per il cinema con il quale hai fatto il tuo apprendistato come assistente. Due autori molto connotati dal punto di vista etnico-culturale ma non per questo provinciali. C’era però il rischio che due personalità meridionali così forti potessero indirizzarti verso un’espressività circoscritta.
Sono stato influenzato da Rosi che pur essendo napoletano ha sempre avuto un legame molto forte con la Sicilia e con i siciliani, un rapporto limitante se non si riesce a declinare un’universalità, ma questo dipende molto dall’autore. Sciascia un po’ come tutti i siciliani ha gettato un ponte europeo con la Francia mentre Tomasi di Lampedusa con l’Inghilterra. L’isolano ha sempre bisogno di sentirsi protetto in un rapporto ossessivo, non si muove da uno stesso luogo d’origine. Questi due autori invece mi hanno spinto oltre. Il grande fotografo Ferdinando Scianna con la mostra «Sicilia e dintorni» ha voluto alludere proprio a questo, ha descritto quel mondo come dintorni.
Tu sei conosciuto soprattutto per i tuoi film e l’ultimo «Viva la libertà» con Toni Servillo in un doppio ruolo che sembra una commedia francese, ha aumentato il tuo successo di pubblico e di critica. Ma hai fatto più regie teatrali e liriche che cinematografiche.
Il mio percorso teatrale è stato un po’ particolare. A volte ci si imbatte in autori che sono congeniali, mi sono accostato al teatro in modo anomalo, ho amato autori come Kantor, Bob Wilson, drammaturghi molto forti visivamente ma anche altri molto diversi come Pinter. Mi ha folgorato la sua forza stilistica, il meccanismo della reticenza, del non detto, delle ellissi, con lui è nato un rapporto particolare anche d’amicizia al punto che gli ho dedicato un documentario. E poi anche con Moni Ovadia è nato un sodalizio unico grazie a un particolare feeling culturale e affiatamento artistico. Sono incontri che hanno segnato il mio percorso che ha un’origine spuria, senza aver fatto teatro prima, quindi con alcune contraddizioni. Ad esempio per Proprio come se nulla fosse avvenuto mi sono rivolto alla Ortese di Il mare non bagna Napoli – ma anche ad altri autori – che non è un testo teatrale, perché il suo racconto è uno sguardo che definisce un modo di concepire il teatro, la sua descrizione di una città morta per me è diventata un pezzo di teatro, mi ha offerto una possibilità espressiva, ho fatto anche un’installazione a Palermo con Anna Bonaiuto, una soluzione espressiva al di là della rappresentazione teatrale della morte. Per la lirica è diverso, quando hanno cominciato a chiedermi regie liriche mi sono messo a disposizione del musicista, al servizio di Mozart.
A Palermo hai dedicato prima un documentario e poi un saggio.
“Diario senza date”, è stato prima un documentario e poi un libro. Ho raccolto materiali sparsi che avevo scritto sulle stragi di Falcone e Borsellino, il progetto nasceva soprattutto dalla riflessione che nessuno si era soffermato sull’aspetto che in Sicilia c’era una guerra permanente, desideravo esplorare questa zona, riaprire una pagina dolorosa della storia siciliana da un’angolazione diversa prima con un film poi con un saggio. Anche a Rosi ho dedicato un documentario. “Il cineasta e il labirinto” è il ritratto di un autore per me molto importante.
Dopo il successo di «Viva la libertà» stai preparando un nuovo film?
“Viva la libertà” un film molto italiano per certi versi ma come ha detto qualcuno molto europeo perché appartiene a quel cinema che si può comprendere in qualsiasi posto. Con lo sceneggiatore Angelo Pasquini, coautore della sceneggiatura, sto scrivendo un nuovo film che comincerò a girare nel prossimo aprile.

Ti dividi sempre con molta intensità tra cinema e teatro. Quale delle due forme espressive influenza maggiormente l’altra?
Il cinema e il teatro, è chiaro, sono due codici diversi, ma un bravo attore lo deve essere sia al cinema che al teatro. La differenza sta nel modo in cui puoi legare una drammaturgia a un attore. Al cinema in genere non faccio mai provini, scelgo gli attori che mi piacciono, per me è importante il modo di parlare agli attori, do loro una grande forza, spesso si sentono solo degli strumenti. Il fatto che il teatro mi obbliga a fare prove e un certo tipo di lavoro sull’attore in qualche modo mi spinge ad utilizzarlo anche al cinema. È un metodo che in modo diverso dà due risultati: i due mezzi vanno in una direzione diversa anche se poi cercano/inseguono la stessa cosa.