Nel 2012 va alle stampe Amianto. Una storia operaia (Agenzia X). All’incrocio tra racconto biografico e narrazione d’inchiesta, è un libro scottante, che gira e fa discutere. Tanto che, due anni dopo, viene ripubblicato (Alegre, 2014) con un’edizione ampliata e rivista. L’autore è Alberto Prunetti e il libro, come suggerisce il titolo, narra la «storia operaia» di suo padre Renato, saldatore-tubista che al lavoro in fabbrica e nei cantieri ci ha immolato una vita. Letteralmente, perché Renato, poco dopo essere andato in pensione, muore per un tumore causato – senza ombra di dubbio, tranne che per gli avvocati dei padroni – alla lunga e duratura esposizione all’asbesto, meglio noto come «amianto», un composto di minerali le cui fibre, entrate a contatto con l’organismo umano, nel tempo risultano letali. Ne basta una per spedirti al creatore. Ma oltre al suo ruolo di denuncia, Amianto si impone come un’incudine nel panorama letterario italiano sul tema: tra il realismo borghese di «industria e letteratura» e la narrativa sul precariato degli anni zero, viziata da un ripiegamento esistenziale. Perché storicizza, perché racconta da un punto di vista operaio, ma soprattutto perché ibrida, cioè si avvale di tutti gli strumenti (narrativi) – biografia, archivio storico, inchiesta, fiction, sguardo antropologico – necessari a controbattere con la retorica classista e padronale.

OGGI, a sei anni dall’uscita di Amianto, Alberto Prunetti torna in libreria riprendendo il fil rouge di quella storia, con un volume dalle cui pagine sembra propagarsi l’eco dello stesso urlo, strozzato ma irriducibile, di Steve McQueen nei panni di Papillon: «maledetti bastardi, sono ancora vivo!».
L’ultima fatica si intitola 108 Metri. The new working class hero, pubblicato dai tipi di Robinson (Editori Laterza, pp. 152, euro 15). Racconta il vissuto dell’autore da emigrato in Inghilterra, arrabattandosi tra vari sgobbi sotto le etichettature di pizza-chef, kitchen-assistent e cleaner, tradotto dall’aziendalese britannico suona così: aiuto-pizzaiolo, cambusiere, lava-cessi.
«Ho giurato. Dio salvi la Regina. E chi entra nel Regno pulisca la latrina». Con queste parole si apre il viaggio da lavoratore ramingo nel Regno Unito, scandito in sei dinamici capitoli più l’epilogo, e intervallati da un back to the origins che è un ritorno in Maremma, costeggiando i 108 metri di rotaie fusi nell’altoforno di Piombino, ora spento. Laddove tutto ha tenero inizio e tragica fine: di un’epoca, quella vissuta dalle masse proletarie dal boom economico a oggi, e di una vita, quella, appunto, di Renato. E di tanti altri operai.
Alberto approda in Inghilterra subito dopo la laurea, negli anni (’90) in cui il mercato del lavoro si contrae, spedire curriculum è un’inutile farsa, e andarsi a procacciare un salario oltremanica sembra una buona soluzione. Il primo lavoro è da aiuto-cuoco in una pizzeria italiana a Bristol. La padrona è una salernitana emigrata in UK negli anni ’80 ma, a scanso d’equivoci, nessuna reale solidarietà per il connazionale espatriato: meschina, reazionaria e ultra-padronale è la conduzione dell’impresa.

L’UNICO vero patto solidale che Alberto stipula è con i suoi colleghi sfruttati: il cuoco John Silver, ex lupo di mare dalle dipendenze facili e una mistura idiomatica scoppiettante – spanglé la definisce il narratore, restituendola al lettore attraverso una sorta di grammelot; e Rodrigo, «il tuttofare che non faceva praticamente un cazzo», abilissimo sabotatore dei ritmi lavorativi. Quindi, cacciato dalla pizzeria al primo controllo dell’ispettorato inglese, è la volta dell’Hampton Mews, il centro commerciale in cui orde di disoccupati approdano a caccia di un contratto regolare e, soprattutto, di un «minimum wage», salario minimo. Mansione: lava-cessi.

ANCHE QUI, l’unica evasione dal tanfo irrespirabile e dagli obblighi estenuanti imposti, è l’amicizia con Brian, il mago stura-latrine, soprannominato «Pavarotti» per la sua passione lirica e una super-filosofia che lo aiuta a rendere meno cupo l’incarico a cui è stato destinato. Infine, la cambusa in una mensa scolastica, al fianco di Ian, Tim, Ross e Fatty-boy, rispettivamente un ladro di macchine, un alcolizzato, un rissaiolo e un tossicomane. Sono la scorza più dura della working class britannica, la teppa canaglia e ciurma ribelle, che si spende a lavoro per sbarcare il lunario, ma non ostenta alcuna affezione all’azienda, e guai a farli incazzare.
Armato di una prosa tagliente e tragicomica, con una gestione punk e incalzante dell’impianto narrativo, e con incursioni allucinogene che rimandano allo spettro del tatcherismo e della Brexit, Alberto Prunetti rinsalda il patto con i lettori di Amianto e torna a dar voce alla classe lavoratrice, per rammentarci che – a fronte dei diritti da riconquistare – il lavoro è sempre sfruttamento, a vantaggio dei pochi e sulla pelle dei molti.