La rabbia in corpo

Sulla via lunga e stretta di un popoloso quartiere romano, la vetrina smerigliata di un negozio è la soglia del luogo di ascolto e terapia mentale per maschi adulti che hanno perduto la testa esercitando violenza verso i propri oggetti d’amore. Un fenomeno che attraversa tutte le culture e tutti i ceti sociali nel Pianeta, con incidenza quantitativa direttamente proporzionale ai ruoli più o meno subalterni che femmine e bambini rivestono nel costume e nel senso comune delle società di riferimento. Un fenomeno fisico, verbale, sessuale, economico, relazionale. Un fenomeno altresì celato per ignoranza e rassegnazione, per terrore del suo acuirsi, per isolamento o sfinimento e morte interiore. Al Cam (Centro di Ascolto per uomini Maltrattanti) mi accoglie un signore con pochi capelli e molta simpatia, padre e consorte di mezza età. Lucido, armato di pazienza, psicologo. Andrea Bernetti fino a pochi anni fa si occupava di formazione aziendale, ma col tempo in lui si accrebbero il rifiuto a normare gli individui in funzione del ciclo produttivo e l’attrazione al privato intimo soggettivo: dipanare la matassa della complessità psichica e avvicinare la possibile gratificazione esistenziale. Secondo la nobile arte di chiedere e porgere aiuto. Perciò, quando una sua collega fiorentina -artefice del primo Cam in Italia- gli propose di istituirne uno a Roma, Andrea trovò pane per i denti della sua insoddisfazione professionale: “gli uomini maltrattanti vengono qui spontaneamente (per paura di perdere i figli e la compagna o per suggerimento dell’avvocato se denunciati) dicendo ‘toglimi la rabbia in corpo’. Per aiutarli è necessario tuttavia capire le ragioni che fanno agire violenza, il contesto culturale e la storia d’una persona, altrimenti questa rimane prigioniera dei propri limiti, senza capire il perché della propria distruttività”.

Salvato dal baratro

Giacché, se le ragioni di una violenza agita ma non voluta rimangono oscure, la violenza si esterna altrove o contro se stessi, facendosi implosione patologica. Perciò il lavoro di scavo psicologico al fine di “orientarsi nella comprensione e gestire al meglio la propria aggressività: dopo alcuni colloqui individuali sulla storia del soggetto, l’analisi si fa in gruppo con cadenza settimanale (almeno per un anno), un percorso in cui si mettono a nudo esperienze dolenti”. Emergono storie selvagge in famiglia, crudeltà subite e/o assistite: “un paziente da piccolo veniva picchiato dal padre, la madre guardava Retequattro mentre il padre lo tormentava, si allontanò da casa giovanissimo, temeva di reagire in modo irreparabile alla violenza genitoriale; l’ho conosciuto che aveva trent’anni, sposato con due figli; era la sua ragazza ad averlo salvato dal baratro, ma questo generava in lui l’ossessione di perderla, una gelosia possessiva incontrollata: la donna non era libera di amarlo bensì obbligata; all’inizio della relazione lui era tutto attenzioni, gentilezze, feste, regali, modi iperprotettivi… Il punto critico si ebbe con la nascita dei figli, il tempo e l’amore della giovane per i bimbi, la cura di sé come madre e lavoratrice, come persona autonoma, non solo moglie. Entrambi i coniugi sono semplici impiegati (ma questo vuol dire poco: il primo paziente che abbiamo accolto è un noto avvocato rampollo di un notaio altrettanto noto) e per lui la violenza agita diventò vitale per confermarsi nel ruolo di maschio dominante: se tu te ne vai, se mi tradisci, se mi abbandoni, se ami altro da me, io mi disgrego. Meccanismo assai simile all’angoscia del bambino piccolo che svegliandosi non trova i genitori: nel bambino si traduce in pianto allarmato, nell’adulto può sfociare in violenza”.

Sensazioni abbandoniche, emozioni primordiali, affettività analfabeta, attaccamento febbrile, estroversione invalidante, “perché invadiamo gli altri proiettandovi i nostri contenuti” invece di costruire una relazione orizzontale di persone differenti che arricchiscono lo spirito nello scambio reciproco.

Il bambino e il mattarello

La fantasia del maltrattante pensa la partner violata in modo non corrispondente alla realtà fattuale: capirlo è decisivo… La violenza fisica estrema viene preceduta dall’isolamento sociale imposto alla donna, dalla svalutazione di ciò che fa e dice, in un’ottica autoreferenziale di cultura della sopraffazione. L’impiegato cominciò col minacciare la moglie solo perché salutava un collega di lavoro, poi passò ai fatti colpendola col mattarello mentre allattava il bambino piccolo: una mostruosità di cui lui non si rendeva conto e che anzi giustificava ritenendola una punizione dovuta al comportamento della donna. Lei tentava di contenerlo, taceva, faceva finta cogli altri che loro erano la coppia più bella del mondo… finché -coi figli ormai cresciuti- si è ribellata. Solo allora lui ha cominciato a pensare la gravità dei suoi gesti, la follia distruttiva che li animava. Talvolta, se resta un barlume di raziocinio, la violenza viene scaricata sulle cose, come accadde a un altro paziente che picchiò la compagna, questa chiamò i carabinieri e lui cominciò a distruggere casa, complice anche la cocaina di cui faceva uso e spaccio… Ma qui nel gruppo ci sono pure soggetti assolutamente tranquilli all’apparenza, tipo un bancario cattolico praticante ben educato… I fattori culturali, l’ideologia machista e patriarcale, l’idea della donna relegata in tradizionali ruoli subalterni, incidono molto, in qualche misura legittimano agli occhi degli abusanti l’uso della violenza e la segregazione femminile (fattori culturali ancor più duri in aree tipo l’Est Europa, l’America Latina, i Paesi islamici)”. Fattori che esplodono nell’epoca dell’emancipazione femminile mandando all’aria un potere maschile plurimillenario: una crisi d’identità storicamente inedita, che spazza la presunzione degli uomini e marca la violenza di genere, svelando “l’incompetenza maschile affettiva, emozionale, comunicativa, di lettura e comprensione del nuovo contesto. All’inizio non capiscono, non avvertono che il potere presunto è narrazione anacronistica, che la crudeltà agita è dovuta alla disperazione del maschio stereotipato e spodestato, che invece la relazione va conquistata con sensibilità, acquisendo competenze amorose adeguate. Però, nel corso del tempo e del lavoro interiore…: recentemente i due impiegati e i loro ragazzini hanno trascorso giorni assieme in allegria sincera; il cocainomane non pippa più, ha un lavoro regolare, all’ultimo incontro di gruppo ha portato un suo puzzle dove vi sono foto della sua compagna e dei loro quattro figli, sono i pezzi di una famiglia -dice- che lui ha distrutto e che intende ricomporre perché la ‘testa’ da sbagliata gli sta diventando giusta”.