Tre adolescenti decidono di lasciare il loro misero villaggio guatemalteco per poi attraversare il confine del Messico ed entrare negli Stati Uniti alla ricerca di una vita migliore. Il fatto che il film inizi con un atto dal valore fortemente simbolico, il taglio dei lunghi capelli a cui Sara rinuncia per farsi passare da ragazzino, esprime già un sentimento di dolore per l’atto dell’abbandono e l’energia insopprimibile del passo che si vuole compiere. Juan (Brandon Lopez) indossa i suoi preziosi stivali rancheros, Juan, il più debole, non resisterà al primo ostacolo e tornerà indietro. Due viaggi compiono i ragazzi, uno verso il luogo delle meraviglie, e un altro forse più difficile in quelle circostanze, un percorso di maturazione in cui mostreranno di che pasta sono fatti.

A loro si vorrebbe aggregare un altro ragazzino, l’indio Chauk, respinto costantemente da Juan che poco sopporta l’allargamento del suo drappello, oltre al fatto che rappresenta un altro ostacolo, lui che parla solo una lingua che nessuno capisce – ma poi, si vedrà, capisce benissimo quali sono le parole chiave – Elemento estraneo, ma interessante snodo per tessere conflitti e far emergere paure, complicità e perfino teneri elementi legati alla comprensione e alle pulsioni dell’adolescenza. Elemento stupefacente è la bellezza del paesaggio che via via si deve abbandonare, i campi, i colori della vegetazione dall’inutile splendore perché fanno solo da cornice a una vita senza futuro (ci diceva un regista latinoamericano che i poveri non si soffermano certo ad ammirare il paesaggio).

Sono continui e serrati i limiti che i ragazzi saranno costretti ad affrontare, dal primo tentativo di racimolare i soldi per il cibo con uno spettacolino di strada, subito individuati dai poliziotti e rapinati di tutto a successivi incontri sempre più drammatici.

Sul tetto del treno che attraverso il Messico li trasporta insieme ad altri più adulti migranti, sono poi intercettati da banditi che scoprono la vera identità di Sara e la portano via insieme a tutte le altre donne commerciabili. Seguendo i muri innalzati tra i confini da passare a dispetto di elicotteri e vigilanza armata, il viaggio continua inarrestabile. Nessuno ha in ogni caso niente da perdere. E parallelamente continua il conflitto tra Juan e Chauk che imperterrito lo segue, fino a quando verrà fuori la vera tempra di adulto di uno e dell’altro. Lo spettatore è condotto verso un finale fulminante con tutta l’abilità acquisita dal regista spagnolo, lui stesso «migrante» verso gli Usa e poi il Messico, assistente di Ken Loach in Terra e libertà, operatore per Fernando Meirelles, Alejandro Gonzales Iñárritu, Oliver Stone, Spike Lee e Isabel Coixet, registi che hanno indagato in modo diverso nelle pieghe della storia della conquista. Sarà per questo che emerge accanto all’empatia creata dai personaggi anche il versante un po’ didattico nel seguire il tradizionale percorso degli immigrati dal Messico agli Usa nutrito dall’immenso lavoro di raccolta di testimonianze, di cui vuole rendere conto il più possibile, accompagnato però dall’abilità nell’arricchire di energia vitale tutte le difficoltà incontrate, allargando il discorso all’intera esperienza umana.

Alle migliaia di migranti che vorrebbero entrare nei territori nordamericani fuggendo fame e mancanza di diritti civili, parecchi registi latini hanno dedicato i loro film che mai hanno raggiunto i nostri schermi, tranne qualcuno, grazie al nome già famoso (Gael García Bernal con Los invisibles del 2010). Girato in 16mm, camera a mano, La jaula de oro si muove tra un confine e l’altro (il documentario, l’avventura, il thriller), rispettoso dei suoi protagonisti e di chi li guarda. Premio Talent a Cannes come miglior esordio e premio ai protagonisti della sezione «Un Certain Regard».