Non mi è del tutto chiaro se la fase di formazione che sta accompagnando il mio rientro al lavoro nella biblioteca Ariostea di Ferrara sia il frutto del fatto che esso non era previsto neanche dall’amministrazione comunale o, come mi piacerebbe pensare, una pratica virtuosa che dovrebbe riguardare tutti quelli che si accostano ad una nuova realtà lavorativa. Vero è che, comunque, dopo un primo mese passato nel luogo centrale del polo bibliotecario ferrarese, l’Ariostea appunto, ora mi trovo a fare conoscenza con le quattro biblioteche decentrate nei quartieri.
Adesso sono alla Bassani, una bella e relativamente nuova biblioteca del Barco, il vecchio quartiere operaio e popolare di Ferrara, quello la cui storia era legato all’esistenza del “fabbricone”, il petrolchimico Montedison che negli anni dei fasti della classe operaia, fino alla prima ristrutturazione degli anni ’80, contava più di 4000 operai e che ha forgiato un’intera generazione di quadri politici e sindacali. Nonché di un nugolo di studenti delle scuole superiori, come il sottoscritto, saggiamente un po’ estremisti ma pieni di curiosità verso il mondo, che compivano il loro apprendistato proprio con il volantinaggio prima del piazzale e la cui “prova del nove” era quello di effettuarlo nelle primissime ore delle mattine invernali, sfidando il freddo padano e avvolti nella coltre un po’ surreale dell’immancabile nebbia.

Nel Barco post-industriale, scomparso e frammentato il ” fabbricone”, che ha lasciato il posto a diverse piccole-medie aziende chimiche, la biblioteca si presenta come un luogo di socialità. Reincontro qui Francesco, maestro elementare di lungo corso, orgoglioso di insegnare nella scuola primaria e del lavoro di fotografia sulle immagini del quartiere svolto dai suoi piccoli studenti, che è venuto alla Bassani per parlare con Giorgia, l’infaticabile responsabile della biblioteca, e trasformare quell’attività didattica in mostra da allestire al suo interno. La Bassani pullula di presenze, soprattutto studenti e pensionati, che si dividono sui tavoli di lettura e nella sala multimediatica, testimoni di un ampliamento di interesse e di coinvolgimento che fa sì che la Bassani oggi ha un patrimonio di più di 60.000 libri e ne presta quasi 50.000 all’anno, in un territorio che conta poco più di 25.000 abitanti.

Le persone che ci lavorano formano un bel collettivo, aperto verso i nuovi arrivati, consapevole di svolgere un lavoro utile alla cittadinanza. Uso non casualmente il termine di collettivo, perché non ci sono, nella sostanza, divisione dei ruoli, ma, anzi, a partire da Giorgia, una forte intercambiabilità delle mansioni, ci si organizza in modo flessibile a seconda delle esigenze che emergono nella quotidianità del servizio, quasi con una logica autogestionaria.
Eppure, per converso, nonostante la Bassani possa apparire quasi un’isola felice, in controtendenza rispetto alla vulgata del pubblico fonte di sprechi e residuo del passato, ci si rende conto che c’è qualcosa che non torna. L’età media di chi ci lavora è abbastanza alta, nonostante l’ingresso da poco tempo di Alessandra che contribuisce ad abbassarla, e conferma la denuncia fatta giorni addietro dall’Associazione Italiana Bibliotecari che parla di un blocco del turn-over che va avanti dalla metà degli anni Ottanta. I soldi per comprare libri si riducono e, tra l’altro, gli spazi fisici per tenerli ormai sono saturi. Gli utenti sono un numero significativo, cresciuti in questi ultimi anni, anche grazie a un buon lavoro di promozione e di apertura all’esterno della biblioteca, ma non si sfugge all’impressione che anch’essi abbiano raggiunto un tetto non ulteriormente passibile di aumento. Il fatto è che anche le biblioteche sono state “tagliate”. Forse il ministro Franceschini dovrebbe occuparsene. Mi rendo conto di chiedere troppo: i beni comuni non meritano tanta attenzione e tantomeno risorse aggiuntive. Meglio pensare, in sintonia con il presidente del Consiglio, ai licenziamenti degli orchestrali del Teatro dell’Opera di Roma.