Uno degli strumenti scientifici più sofisticati mai costruiti, il fiore all’occhiello dell’ingegneria astronomica di tutto il pianeta, nasconde un segreto. Il James Webb Space Telescope, quello che già ha mandato le sue prime immagini mozzafiato del cosmo, con migliaia di galassie lontanissime, tutte contenute in una regione di cielo che occupa lo spazio visuale di un granello di sabbia, o quella, proprio la scorsa settimana, della galassia dalla curiosa forma di ruota di carro, non avrebbe mai dovuto chiamarsi così.

LO RACCONTA un nuovo documentario firmato dalla videomaker Katrina Jackson e dalle astronome Erika Nesvold e Lucianne Walkowicz, della Just Space Alliance, una ong dedicata a immaginare un futuro più inclusivo ed etico per lo spazio. Il video, uscito proprio pochi giorni prima che la Nasa rendesse pubbliche in pompa magna le prime immagini del più emblematico dei suoi telescopi spaziali, è destinato a riaprire la polemica che, goffamente, la Nasa aveva cercato di chiudere a settembre scorso (come raccontammo su queste pagine).
Una polemica che prese le mosse all’inizio dell’anno scorso, quando quattro astronome e astronomi del collettivo Lgbtiq+ lanciarono una petizione sulla rivista Scientific American. Chanda Prescod-Weinstein, Sarah Tuttle, Brian Nord, e la stessa Lucianne Walkowicz argomentavano che James Webb, un burocrate figlio della guerra fredda e che aveva guidato l’agenzia spaziale statunitense negli anni della corsa allo spazio, era stato quanto meno connivente, se non proprio artefice di politiche omofobe. Si trattava del cosiddetto terrore viola, o lavender scare, la controparte queer dell’anticomunista caccia alle streghe del famigerato (e alcolizzato) senatore McCarthy.

LA PETIZIONE aveva raccolto circa mille e ottocento firme e, soprattutto, aveva portato alla ribalta la scelta arbitraria del nome del supertelescopio che aveva fatto unilateralmente e senza confrontarsi con nessuno nel 2002 un successore di Webb alla guida dell’agenzia spaziale statunitense, Sean O’Keefe, per – diceva – onorare la leadership di un uomo grazie al quale era stata piantata la bandiera a stelle e strisce sulla faccia della luna.
A settembre dell’anno scorso la Nasa, poche settimane prima del lancio, aveva deciso di tagliar corto e chiudere velocemente la polemica. Il suo attuale amministratore, il 79enne Bill Nelson, aveva sentenziato, secondo la nota fatta arrivare ai giornalisti: «Non abbiamo trovato prove che giustifichino un cambiamento di nome». Questa decisione sorprendente aveva provocato le immediate dimissioni di Walkowicz da uno dei comitati Nasa.
Peccato infatti che le ricerche non erano ancora terminate, e che, come ha raccontato la rivista Nature ad aprile dopo aver avuto accesso a tutte le mail interne inviate sul tema, la questione non era affatto chiusa, se uno degli storici che lavorava sul caso era arrivato a scrivere: «che Webb abbia avuto una posizione centrale durante la Lavender Scare è indubbio. Per il dibattito storico resta solo da accertare se l’aveva fatto con convinzione o no».

LA STORICA AUDRA WOLFE, che parla anche nel filmato, è convinta che sia improbabile trovare documenti dove Webb metta il proprio nome sotto un’azione esplicitamente negativa, né nell’epoca come amministratore della Nasa, né in quella precedente come numero due del Dipartimento di stato. Ma, come viene ben raccontato nel documentario, è certamente stato coinvolto nella definizione delle politiche di implementazione della Lavender scare e sotto il suo mandato almeno una persona, Cliffer Norton, venne licenziata solo per il sospetto di essere gay, pur essendo un impiegato modello. E questa pratica era «abituale» alla Nasa, come viene scritto nella sentenza che alla fine diede ragione a Norton. Secondo uno degli storici contrattati dalla Nasa, «che questo fosse ‘abituale’ non suona proprio bene», come scriveva proprio in uno dei messaggi svelati da Nature.

PARADOSSALMENTE, è proprio James Webb a sposare la tesi di chi vorrebbe non usare il suo nome per il telescopio, secondo quanto ha rivelato Wolfe al manifesto: «Seguendo quel che scrive lui stesso in un suo libro sul management, i manager devono assumere la responsabilità per tutte le azioni che compiono le agenzie che dirigono, e inoltre hanno l’obbligo di risponderne all’opinione pubblica».

ESISTONO CASI di telescopi spaziali il cui nome è stato modificato: il caso più noto è quello di Swift, un osservatorio per i Gamma Ray Burst (esplosioni improvvise e molto potenti) che venne ribattezzato nel 2018 Neil Gehrels Swift Observatory, in onore del suo responsabile scientifico, o quello del satellite per raggi X Chandra, il cui nome venne cambiato solo poco prima del lancio nel 1998.
Ma le autrici del documentario non sono ottimiste, e non credono che la Nasa rimetterà in discussione la propria decisione. Ma aggiungono: «Anche se la Nasa avesse deciso comunque di non cambiare il nome, l’avrebbero potuto fare molto più elegantemente e soprattutto senza ferire ancor di più la comunità Lgbtiq+ – dice infatti Nesvold – In questo modo hanno solo perpetuato politiche omofobe». «Aver aperto questa discussione su come la Nasa dà i nomi ai telescopi, e far capire che è importante coinvolgere molti punti di vista, è comunque un successo», aggiunge Jackson.
Per parte sua, la Nasa si è limitata a far avere un nuovo, scarno, comunicato. Si dice di «non avere ulteriori informazioni da condividere», che «lo storico della Nasa e un altro esperto sotto contratto ad hoc hanno concluso con successo la ricerca in altri archivi precedentemente chiusi per Covid-19» e che «stanno raccogliendo le informazioni che l’Agenzia renderà pubbliche».

LA DOMANDA che rimane aperta è: ma davvero sarebbe costato tanto alla Nasa fare un gesto per riparare i danni subiti dalla comunità Lgbtqi+? Davvero il nome di un burocrate della guerra fredda scelto senza neppure consultare i partner dell’Agenzia spaziale europea e di quella canadese era il migliore per uno strumento che rappresenta il meglio prodotto dall’umanità? O credevano che la potenza delle immagini avrebbe seppellito la polemica? Forse persino la Nasa deve ancora imparare a riflettere sugli intrecci inestricabili fra la scienza e la società che la produce.