Quando mi capita d’essere invitato a parlare di scuola in qualche luogo più o meno politico, ormai sono quasi in imbarazzo. E non credo sia una questione solo scolastica. C’è di più. C’è un cambiamento radicale di paradigma riguardo la società e il lavoro, che spiazza. Intendiamoci, la scuola la si può sempre raccontare. E – almeno a me, programmaticamente ottimista fino quasi all’imbecillità – viene sempre fuori un racconto tutto sommato bello. Non si può insegnare qualcosa a qualcuno se non si ha un po’ fiducia in lui o in lei. A me sembra che succedano ancora nelle classi delle cose intense e importanti. Relazioni significative e anche affettive pur nella asimmetria. Scoperte, piccole lampadine che si accendono. Microsapere che ha dentro il senso della grande conoscenza.

Però mi sembra che dal racconto non venga più fuori un discorso politico. Soprattutto non viene di “politica scolastica”. Vive un’idea di sapere e di politica mille miglia lontana dalle pratiche e dal discorso pubblico che attraversa il presente. Non è solo una questione di scuola. È che proprio quella politicità delle relazioni ravvicinate sembra una dimensione letteraria o esotica, ricacciata indietro dal baratro che ha separato la città istituzionale dalla società. E la società da se stessa. Perché non si tratta solo della crisi di Bisanzio, chiusa dentro le sue mura, pure in via di crollo. La critica del potere pensa se stessa in una forma del tutto nuova. Come una totalità contro un’altra totalità. Tipo lo Stato e la volontà generale del Popolo, tutto con la maiuscola. Da una parte il vecchio ceto politico, castale, privilegiato; dall’altra i cittadini comuni, i sindaci delle città, gli imprenditori coraggiosi. Gli spiriti animali della società civile. Nuovi leader, ma che si sono fatti altrove dalla politica, per cui Firenze sta a Renzi come il Milan a Berlusconi, la rete a Grillo. Loro biglietto da visita. L’azienda vincente che hanno creato dal nulla.

Il modello commerciale è la dimensione vitale che ci è concessa. Il resto è accademia o politica. I tredici minuti di Ettore Serra alla Leopolda sono stati illuminanti. Da una parte il Bene: i giovani imprenditori intraprendenti costretti all’esilio, dall’altra il Male: la politica, i pensionati, il pubblico impiego. Insomma i garantiti dallo stato, i protetti dai contratti nazionali. I parassiti contro i meritevoli, uomini del fare.

Una delle parole fondamentali infatti è meritocrazia. L’uguaglianza diventa ideologico egualitarismo, non il prerequisito (anche liberale) del merito, senza il quale resta l’élite chiusa degli aristoi: i migliori per nascita – sociologica se non di sangue. Chi è cresciuto nelle periferie dell’esistenza e non ha mai visto in casa un libro, non ha molte chance di competere con i “meritevoli”.

Alla fine la semplificazione che ridefinisce il conflitto come il sotto contro il sopra funziona alla grande. Permette di dare voce alla rabbia e anche avanzare una nuova speranza – magari nella forma «proviamo anche con Renzi, è diverso e vincente, basta perdere». Peraltro, “mandiamoli tutti a casa” è l’altra espressione chiave.

Anche nelle vicende che hanno caratterizzato il “movimento del 9 dicembre”, quello detto dei forconi, è possibile leggere lo stesso segno. Noi siamo gli Italiani. Tutti. Voi siete i politici, quelli di Equitalia. Siamo non i poveri o gli sfruttati ma gli impoveriti. Quelli che erano e non sono più. Immiseriti dallo Stato nazionale traditore della nazione. Le tasse, che erano state lo strumento per ottenere la rappresentanza politica, ora nella crisi della rappresentanza tornano a essere il nemico mostruoso.

La sinistra mi pare abbia reagito al movimento con gli antichi schemi: un’insorgenza sociale, legittima e perfino preziosa, ma pre-politica, che aspetta le venga spiegato l’insieme del piano del capitale o della finanza sovranazionale. Fare politica come pedagogia. A me sembra, invece, più che l’espressione di qualcosa di pre-politico la manifestazione di un atteggiamento post-politico. Figlio di questa destrutturazione: delle soggettività, dei corpi intermedi e dei linguaggi, semplificazione del conflitto. Riduzione a due del mondo, e in chiave molto maschile. Uno scontro di folle e caste che cancella le relazioni concrete.

Tutto questo c’entra in qualche modo con il senso di spaesamento che connota le scuole. Intanto è bizzarro che dopo aver passato anni a polemizzare con la riduzione dell’insegnamento a prestazione impiegatizia, si finisca per essere collocati in quanto impiegati pubblici nella categoria dei privilegiati. Una corporazione di illicenziabili improduttivi, ancora un po’ malati di cultura del Sessantotto – che resta il grande nemico di questa nuova politica, nell’epoca della fine della polis. Nessuno nelle scuole prova più a difendere le condizioni di lavoro o gli stipendi. Il blocco dei contratti è passato suscitando al massimo mugugni. Abbiamo interiorizzato che nella crisi è già molto averlo un impiego. Un privilegio. Ma è tutto il lavoro che ha cambiato statuto. In tanta meritocrazia, è come se fosse scomparso il merito del lavoro, cioè la sua funzione per la collettività, il carattere se non artigianale comunque legato alle persone e alla creatività. Il mondo di relazioni che vi si costruisce.

Chiaro quindi che per chi insegna si metta male. Se lavorare nello spazio pubblico (vedi anche la sanità) non significa costruire cittadinanza, relazioni di attenzione e di cura con le persone, sapere – allora dalla scena scompaiono bambine e bambini, ragazze e ragazzi, e si accampano amministrazione statale e sindacati, protocolli e Invalsi. Una megamacchina di impiegati statali. Tristi. Fuori poi non è facile trovare come un tempo il “mondo del lavoro” cui collegarsi. Niente lotta di classe, solo il massacro di una classe sull’altra – che ha perduto da un pezzo, da quando è andata distrutta la sua identità. Classe in sé ma non per sé. Non più soggetto politico, solo fattore fra gli altri della produzione, ingranaggio qualunque, dominato dalla legge della domanda e dell’offerta.

Negri e Hart avevano festeggiato la moltitudine in arrivo, invece è arrivata la frantumaglia del grande libro di Elena Ferrante. Buona al massimo per il vaffanculo.

Capisco le colleghe e i colleghi silenti che appena sfogliano il giornale al bar. Che altro si può fare? Un po’ si proteggono. Forse proteggono anche la scuola, il rapporto con le ragazze e i ragazzi. È già qualcosa non mandare il messaggio devastante che tutto è merce, o lo sarà. Che si tratta di attrezzarsi per la competizione nella giungla di individualismi vari che aspetta fuori. Che tutta la didattica è bene si modelli sulle prove oggettive e sulla somministrazione di test, perché solo ciò che è oggettivamente rilevabile è rilevante. Il resto è poesia.

E però mi sa che non basterà preservarsi.

Rischia di succederci come al personaggio innamorato dei libri di un grande episodio di “Ai confini della realtà”. Quando esce dalla nicchia in cui si è salvato dal disastro trova il mondo distrutto e un sacco di libri sparsi dappertutto. Ma gli occhiali per leggerli li ha inavvertitamente schiacciati con un gesto disattento.