Tra i quattro titoli italiani selezionati in concorso a Venezia 74, è arrivato in questti giorni nelle sale Hannah di Andrea Pallaoro, protagonista assoluta Charlotte Rampling che al Lido ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Pallaoro, che è una «scoperta» della Mostra dove ha presentato, nella sezione Orizzonti, il suo sorprendente film d’esordio, Medeas, è italiano ma ha studiato in America, dove vive tra Los Angeles e New York, e fa parte di quei registi italiani – come Jonas Carpignano il regista di ‘A Ciambra, – cresciuti lontano dai «diktat» che regolamentano l’immaginario in Italia. La differenza c’è, ed è molto evidente, lo avevamo già visto nel suo primo film, a cui questo è legato nel progetto ideale di una trilogia femminile – il terzo capitolo è in preparazione, col titolo di Monica. Non si tratta solo di paesaggi – periferie napoletane o romane a parte – è soprattutto una questione di sensibilità rispetto alle immagini, al rapporto con la scrittura in una ricerca che mette al centro la messinscena in antitesi alla tendenza (nostrana ma non solo) di sottometterla alla sceneggiatura.

Hannah è la protagonista – Charlotte Rampling, recitazione silenziosa con ogni nervo e muscolo – una donna di cui sappiamo poco, dai gesti che ce la raccontano nelle prime sequenze cogliamo una vita fatta di piccole abitudini quotidiane: il lavoro di governante nella casa di una ricca signora il cui figlio piccolo è non vedente, i corsi di teatro terapeutico, una specie di autoanalisi di gruppo dove i partecipanti provano a liberare, attraverso i testi letti, le emozioni trattenute, la casa, la cena consumata senza troppe parole insieme al marito, anche lui anziano, il cane adorato, la buonanotte di una consuetudine insieme. Però subito dopo accade qualcosa, il marito finisce in prigione, non sappiamo perché, e Hannah all’improvviso si ritrova da sola. Che cosa ha fatto di così terribile l’uomo da rendere anche la vita della moglie una sorta di carcere di massima sicurezza della solitudine?

Messa al bando dalla collettività, osservata con astio da pochi vicini di quel condominio anonimo come può essere in qualsiasi periferia d’Europa, estranea nella sua stessa casa di cui non riconosce più gli spazi, rifiutata dal figlio, la donna sembra disperatamente attaccarsi alle sue abitudini, unico appiglio alla precarietà emotiva e esistenziale che rischia di sopraffarla. E questo segreto, il fuoricampo degli eventi, o della realtà, prende forma nella sua sofferenza. Capiamo quasi subito, anche se non viene mai specificato, che l’accusa nei confronti dell’uomo è di pedofilia,ha fatto qualcosa ai bambini degli altri, come una voce anonima di madre urla nella testa di Hannah, o ai propri figli. Non lo sappiamo, Pallaoro lascia a noi la decisione, quasi chiedendoci come al personaggio di assumere un punto di vista che non deve essere per forza empatico.

La sua sfida, che comincia dalla scelta di girare in 35 millimetri, è raccontare con la regia, e per questo si affida all’attrice, Rampling, che lo asseconda in piena complicità: è il suo corpo, messo a nudo, il terreno di una battaglia esistenziale, dello scontro tra la rimozione e l’evidenza,tra il rifiuto della responsabilità e il peso insopportabile della sua assunzione.

Ne seguiamo le incertezze, le fantasie, le paure, i brevi istanti di sollievo. Scrutiamo dentro a qualcosa che fa paura anche solo intravedere, perché le «vittime», o presunte tali, del marito non le vediamo mai, rimangono invisibili, presenze disegnate dall’esterno, dal rifiuto che circonda Hannah marchiata quasi come fosse un’appestata.

Il movimento narrativo sono i suoi passi che disegnano un mondo esterno impalpabile e lontano, un rimosso che la schiaccia pesante come la balena spiaggiata davanti ai suoi occhi. Non ci sono però «trucchi» emotivi, la tensione è nello scollamento tra la donna e ciò che la circonda, è geometria di spazi, tempo, senza giustificazioni in quello che appare, anche quando imperfetto, un vero progetto di cinema.