Dopo quasi venti anni di assenza, al Teatro alla Scala di Milano in questi giorni è in scena Der Freischütz (Il franco cacciatore) di Carl Maria von Weber, che debuttò a Berlino nel 1821 e che lo stesso compositore denominò «opera romantica». L’etichetta, nella sua astuzia, dice molte cose sulla complessità inaugurale di questo melodramma, ciascuna delle quali parla di commistione, contaminazione, dilatazione, sconfinamento, meticciatura, perfino contrasto e incoerenza, ovvero i tratti della nuova arte che sei anni dopo Victor Hugo, nella prefazione al dramma Cromwell, sintetizzò con folgorante intuizione nella categoria del «grottesco» e che nel teatro d’opera era stata anticipata di quasi trent’anni da Wolfgang Amadeus Mozart in Don Giovanni (1787).

Il comico mescolato al tragico, il naturale al sovrannaturale, il reale al fantastico, la veglia al sogno, il bello al brutto, il bene al male, il femminile al maschile, l’idillio alla distopia, la letteratura al folklore, la favola iniziatica (dove il soggetto subisce le prove, sul modello del Flauto magico di Mozart) al dramma cosmico della conoscenza (dove il soggetto cerca le prove, sul modello del Faust di Goethe), il dramma parlato al dramma cantato, la musica colta alla musica popolare, i Lieder alle arie all’italiana, la limpidezza della musica settecentesca contrasti accesi di quella ottocentesca (in particolare Beethoven), le triadi alle settime diminuite.

 

Il tutto già dichiarato in bella vista nel dialogo (ancora melodico più che armonico) tra i due temi che caratterizzano l’ouverture. Myung-Whun Chung, allievo di Carlo Maria Giulini che nel 1955 fu protagonista alla Scala di un’edizione memorabile di Der Freischütz, dirige dallo stesso podio con una finezza degna del suo maestro: il rigore, il senso delle proporzioni, la chiarezza delle dinamiche, la giusta proporzione tra buca e palco come di consueto si mescolano alla ricerca del timbro, alla delibazione dei colori, all’indugio nella complessità armonica, alla varietà di un fraseggio che coinvolge dalle pause austere dell’ouverture al melologo demoniaco del finale secondo al concertato conciliatore del finale ultimo.

Di tutto il cast, la voce di certo più in sintonia con la visione del direttore è quella umbratile e delicatissima di Julia Kleiter nel ruolo di Agathe. Muscolare in tutti i sensi, spesso spinto fino al grido, il Kaspar di Günther Groissböck.

Micheal Konig è corretto senza esaltazioni nel ruolo da heldentenor di Max. Divertente ma un po’ sbiadita la Äennchen di Eva Liebau. Imponente l’Eremita di Stephen Milling. L’allestimento, la cui regia è firmata da Matthias Hartmann, già direttore del Burgtheater di Vienna, con le scene di Raimund Orfeo Voigt, le luci di Marco Filibeck e i costumi di Susanne Bisovsky e Josef Gergerh, ha quell’aura scarna di fasti e di slanci, quando non di idee, che sembra essere la cifra di tanti allestimenti teutonici.