Nelle nove sale di Palazzo Reale che ospitano Italiana. L’italia vista dalla moda 1971-2001, a cura di Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi (la mostra è visitabile fino al 6 maggio) sono naturalmente esposti molti vestiti, ma – tengono a specificare i curatori – non si tratta di una mostra di vestiti. Questa premessa, che potrebbe apparire superflua o ridondante, è invece più che necessaria, quasi una dichiarazione di guerra. La posta in gioco è alta.
Nonostante il potere immenso che i brand della moda hanno acquisito nel sistema dell’arte contemporanea, e quindi sulla stessa definizione di cosa è arte e cosa non lo è. Nonostante il più di mezzo secolo di produzione intellettuale «alta» che non cessa mai di articolare le ragioni della rilevanza culturale della moda, dall’interno di dipartimenti universitari e musei e dalle pagine di mille giornali, libri e riviste. Nonostante la partecipazione attiva delle migliori menti artistiche dai circoli, mainstream all’underground, al sistema industriale della moda sia oramai un dato di fatto, storicizzato e normalizzato, ebbene ugualmente una larghissima quantità di intellettuali ama credere di essere fuori dalla moda.

INSUBORDINAZIONI
Neppure il leggendario discorso sul ceruleo di Miranda, la protagonista di Il diavolo veste Prada, nel quale la sadica direttrice del più importante fashion magazine statunitense umilia l’incauto snobismo della sua assistente «intellettuale» mostrandole l’autorevolissima genealogia del suo sciatto maglioncino infeltrito – e quindi la sua totale quanto inconsapevole subordinazione al sistema della moda – è stato sufficiente a disinnescare l’atavica diffidenza nei confronti della moda. Specialmente quando varca la soglia del museo, cercando il riconoscimento: è proprio allora che, fatti salvi gli omaggi rituali (dovuti perlopiù a ragioni di natura commerciale), l’universo della cultura-cultura manifesta tutto il distacco di cui è capace, rifiutandosi di prestare il proprio sguardo e le proprie conoscenze alla decodifica della complessità visuale e produttiva presente nelle icone esposte.
Perché il fumetto o persino il porno vanno bene, mentre la moda resta un corpo, tutto sommato, estraneo? Una delle ragioni fondamentali è la chiusura originaria del mondo della moda stesso. Una chiusura che non va intesa solo nel senso di esclusività, perché anzi è noto che, con la sua prensilità, la moda raggiunge fasce della popolazione mondiale impensabili per le arti. La chiusura risiede nella comunicazione perfetta, nel controllo di ogni dettaglio che non ammette deviazioni, sbavature, interpretazioni.
La moda è il regno della contaminazione, è un linguaggio che si sporca continuamente, anzi deve farlo per statuto: ma nello stesso momento in cui lo fa, è costretto a cristallizzare ogni refuso, ogni tradimento in una calotta di perfezione inscalfibile, che percorre intatta l’intera filiera dei destinatari.
Di qui, la noia. Ed è per questo che l’impresa di Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, di descrivere il trentennio trionfale del made in Italy non come una sequenza di modelli ma come una esplosione di progettualità che incrocia moda, arte, design, fotografia, architettura, scienze sociali e metamorfosi industriali, è molto più interessante di quanto si percepisca in superficie: pochi in Italia hanno la possibilità di mettere insieme nello stesso display una simile quantità di materiali eterogenei con il consenso e la collaborazione dei grandi protagonisti del sistema della moda. La diplomazia e l’autorevolezza necessarie a forgiare un racconto unitario di questo genere è immensa.

CONNESSIONI POTENTI
La mostra che ne scaturisce affianca il Bel Paese di Cattelan, il Pasolini di Elisabetta Benassi, e poi Vezzoli, Ontani, Boetti, Ketty La Rocca, Beecroft, Pistoletto ai capispalla Armani, i nylon di Prada, i Tom Ford, i Moschino e i Marras. Krizia e Missoni convivono con il Dressing Design di Archizoom. Ci sono i numeri di Vanity con le illustrazioni del gruppo di Valvoline (Igort, Mattotti, Brolli, Carpinteri, Jori) e la copertina di Casabella con Nanni Strada, le cover di Occhiomagico e Alchimia sulla Domus di Mendini, le foto dei giganti come Fallai, Gastel o Barbieri.
Insieme a un catalogo ricchissimo che accosta alle immagini delle opere moltissime fotografie dei movimenti, delle città, delle feste, degli ambienti in continuo cambiamento alla fine del millennio, Italiana si impone per la forza delle connessioni, per la chiarezza e l’intensità con cui ricostruisce dei passaggi non banali della storia recente. La nascita del prêt à porter, qui fissata al 1971 con la prima sfilata di Walter Albini a Milano, è una svolta su moltissimi piani: il passaggio dall’artigianato all’industria, naturalmente, e quello dal sarto haute couture alla figura italiana dello stilista, che media le conoscenze formali con le esigenze della serializzazione di più di un’azienda alla volta. Il trasferimento da Firenze a Milano.

UN SISTEMA FLESSIBILE
Le nuove frontiere dell’identità di genere, in contemporanea allo strutturarsi dei movimenti per la donna, con i fino allora impensabili look unisex fotografati nella serie Unilook del giovane Oliviero Toscani. Ed è stata l’Italia, grazie alla sua notissima capacità artigianale diffusa, captata e non rifiutata dall’evoluzione industriale, a inventarsi nel panorama internazionale una democratizzazione della moda così radicale: la flessibilità del suo sistema ha reso possibile la circolazione di vestiti ben tagliati e di buon tessuto a prezzi accessibili, che è diventato il senso del made in Italy.
La mutazione genetica appartiene agli anni Ottanta: il decennio in cui quelle stesse persone che per anni si erano vestite aprendo le balle americane dei mercatini cominciarono a comprare giacche Armani per sé e felpe Best Company per i loro figli.
All’improvviso, il reale si riempie di marchi e loghi, come le F di Fendi o l’aquila Armani, e di oggetti misteriosamente irrinunciabili come il Moncler, la maglietta di Fiorucci con gli angioletti, o poi lo zainetto di Prada. Le grandi operazioni finanziarie, descritte epicamente da Giusi Ferré, e poi l’11 settembre e le prime crisi, chiudono questa fase e con essa l’era degli stilisti, sostituiti dai direttori creativi. Molte cose sono accadute nel frattempo, di lì in poi. Aspettiamo la prossima mostra.