Un thriller tesissimo girato secondo i principi del cinema verità di maestri come Al Maysles, D.A. Pennebaker e Robert Drew, Citizenfour è il primo film realizzato su Edward Snowden (Oliver Stone è al lavoro sulla versione hollywoodiana della storia) , ed è diretto dalla prima persona che l’informatico americano ha contattato quando ha deciso di rendere pubblici i documenti sulla sorveglianza segreta della National Security Administration: la documentarista Laura Poitras. Ambientato tra il gennaio 2013, quando Snowden si è messo per la prima volta in contatto con Poitras, dopo aver deciso di rilasciare i documenti segreti della NSA, e il luglio scorso, in occasione di un nuovo incontro tra Snowden, la regista e il giornalista inglese Glenn Greenwald, il film è girato nel mood freddo, inquietante e preciso di una spy story con intrigo internazionale (la montatrice, Mathilde Bonnefoy, ha lavorato con Tom Tykwer), zigzagando, come farebbe Jason Bourne, tra una rete di capitali (Rio de Janeiro, Hong Kong, Londra, Bruxelles, Berlino, Mosca….) che comunica anche visceralmente la globalità dell’intreccio.

Presentato l’autunno scorso al New York Film Festival, è uscito in sala a fine ottobre, accolto da recensioni entusiaste e, coadiuvato da una serie di collegamenti con Ed Snowden dalla Russia, ha vinto con estrema facilità l’Oscar di miglior documentario dell’anno.
Niente voice over, niente macchina in continuo movimento, una costruzione calma, studiatissima, quasi paranoica verrebbe da dire, in cui anche i colpi di scena arrivano in modo soft: Citizenfour ha ambizioni, ritmi e texture completamente diversi dal tipico documentario inchiesta, anche se alla fine, in una semplice, bellissima, inquadratura presa di notte dall’esterno di una casa, «scopriamo» che la compagna di Snowden, la ballerina Lindsay Mills, è andata a vivere con lui a Mosca.

E, soprattutto, che Glenn Greenwald sta già lavorando con un altro whistleblower, su documenti segreti relativi a un altro braccio del governo Usa, riguardanti il programma dei droni e che implicherebbero in prima persona il presidente degli Stati Uniti. Lo apprendiamo da piccoli squarci dei foglietti di carta scritti a mano che Greenwald passa a Snowden durante il loro ultimo incontro. «È un uomo molto coraggioso» dice Snowden, e poi ancora: «è ridicolo» con espressione incredula quando uno dei foglietti dice che oggi il governo americano avrebbe 1.2 milioni di persone sulla sua watch list. Quando quella conversazione quasi muta si conclude, i foglietti vengono stracciati in frammenti piccolissimi.

Non sappiamo veramente quali informazioni contiene questa nuova leak , e quando arriveranno, ma il messaggio su cui chiude Citizenfour è chiaro: Edward Snowden non è (più) solo. E Poitras gioca quella rivelazione (ventilata da Cnn già l’estate scorsa) non tanto per il suo valore di suspense ma come un dato fatto, il suo un film vuole essere più che il ritratto di un’eccezione, una lucida chiamata alle armi. La storia di Laura Poitras e Edward Snowden è inziata via mail. É stato lui a contattarla, perché sapeva che stava lavorando a un film sui programmi di sorveglianza segreti del governo Usa, di cui lei stessa era stata vittima, a partire dal 2006, durante la lavorazione del suo primo documentario, My Country My Country, sulla guerra in Iraq. Sullo schermo vediamo i testi di quei loro primi scambi, in cui l’allora tecnico dell’azienda informatica Booz Allen Hamilton (consulenti abituali della NSA), nome in codice Citizenfour, annuncia di volerle affidare i documenti relativi a quella che lui definisce «la peggiore macchina di oppressione mai creata nella storia dell’umanità». Personaggio chiave del film, Poitras è fisicamente quasi invisibile (sentiamo ogni tanto la sua voce morbida, vediamo un’immagine fuggente in uno specchio, le sue risposte telegrafiche alle mail di Snowden scorrono sullo schermo…), ma la sua è una presenza potentissima, la presenza di un architetto.

Dalla galleria buia in cui è ambientata la prima parte del film, sfociamo alla luce quando la regista, insieme a Glenn Greenwald (che Snowden le aveva suggerito di contattare), e reporter del Guardian Ewen MacAskill, arrivano a Hong Kong, dove avevano appuntamento con Snowden. Il cuore di Citizenfour è infatti nella camera d’albergo del Mira Hotel, dove i tre giornalisti lo hanno incontrato, tra il 3 giugno, e da dove hanno iniziato a inviare gli articoli basati sui suoi documenti.

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Poitras filma le conversazioni tra giornalisti e Snowden, intervenendo raramente. La prima cosa che colpisce di lui è che sembra ancora più giovane di quanto risultasse nel video rilasciato poco prima di scomparire da Hong Kong, per poi riaffiorare all’aeroporto di Mosca. L’altra è la chiarezza con cui spiega le sue ragioni e con cui ha pianificato la sua decisione. Un ragazzo, seduto su un letto bianco sempre sfatto, le magliette che cambiano colore con il passare dei giorni e l’espressione che si fa più stanca ma anche più sollevata, mano a mano che la sua «storia» prende una vita che lui non potrà controllare più (il primo articolo di Greenwald uscito sul Guardian è del 5 giugno).

L’atmosfera ha una tranquillità paranoica, che si fa progressivamente più densa, surreale. Il telefono dell’albergo è staccato perché, dice l’informatico, «può raccogliere informazioni anche quando la cornetta non è alzata». Un test dell’allarme antincendio lo manda in panico, ma in quello che succede non c’è mai traccia di dubbio. È chiaro anche che Snowden ha lasciato interamente ai giornalisti la scelta di come e quando rendere pubblici i documenti. E che non ha mai pensato di rimanere una fonte nascosta. Anzi, a un certo punto, chiede che gli venga dipinto «un bersaglio sulla schiena». La sua non è una voglia di protagonismo ma un modo di dire fuck you, questa è un’ingiustizia troppo grossa.

Dalle Hawai (dove abitava e da cui se ne era andato senza avvisare nessuno) gli dicono che davanti a casa sua ci sono dei camioncini sospetti e che sta succedendo qualcosa con il suo conto in banca…Il governo americano si sta avvicinando. Ma anche quando Snowden viene trovato ed è costretto a scappare dal Mira, il film non si scompone. Si rasa la barba, cerca di pettinarsi in un altro modo per rendersi meno riconoscibile. Con quella stessa calma dolce, nervosa, con cui parla. Un personaggio più da Eastwood che da Oliver Stone, con la «normalità» di certi eroi di Capra.

Poitras stacca solo ogni tanto «fuori», sulle superfici di vetro e metallo dei grattacieli di Hong Kong, imperturbabili. La materia è puro le Carré, ma il protagonista di questo film non è «il traditore» della patria che il governo americano vorrebbe processare per spionaggio. La storia di Snowden è ancora in progress. E il film non risponde volutamente a parecchie domande. Ma, grazie a Citizenfour, il suo caso è diventato molto più pubblico. E non poteva essere presentato meglio di così.