Un ragazzo magrolino, elegante, occhi azzurri si cimenta per la prima volta con l’orchestra di Tommy Dorsey. Attacca I’ll Never Smile Again, un brano del 1939, scritto da una brillante pianista canadese Ruth Lowe. «Bastarono otto battute e tutti quelli in sala fecero silenzio, ascoltarono in religioso silenzio qualcosa di unico, quel tono carezzevole e limpido che faceva venire i brividi lungo la schiena» racconta il geloso capobanda.

 

 

Non resisterà a lungo il giovane Francis Albert Sinatra, fortemente determinato e sicuro di sé, che vuole diventare più famoso di Bing Crosby, il suo idolo, il cantante preferito che ascolta spesso alla radio. Non ne può più di lavorare sotto contratto con la big band, tra gelosie e rivalità, una sensazione che aveva già provato, un anno prima, con l’orchestra di Harry James, col quale aveva registrato All or nothing at all, la sua prima canzone in assoluto e il titolo dello spettacolare filmato documentario (due puntate di due ore ciascuna) che il regista Alex Gibney ha prodotto per la tv Hbo, partendo dallo storico concerto d’addio di The Voice nel 1971, all’Ahmanson Theatre di Los Angeles, dove il cantante italo-americano (nato a Hoboken nel New Jersey, il 12 dicembre 1945, da padre siciliano e madre ligure) aveva individuato undici canzoni per raccontare al meglio la sua carriera, le abbaglianti perle di un repertorio sterminato.

 
Prodotto dalla Frank Sinatra Enterprise (la società dei familiari/eredi del cantante) per celebrare i cento anni della nascita del crooner, il film è un gustoso spaccato della società americana, dalla seconda guerra mondiale agli anni ’80, mettendo insieme gli avvenimenti della vita sociale (la presidenza Roosevelt, la marcia di Martin Luther King, l’esplosione del benessere economico con gli spot radiotv, i clamorosi rapporti con la famiglia Kennedy e Marilyn Monroe) con quelli della vita privata del cantante , seguendo la vulgata più benevola nei confronti del divo, assai irascibile e dedito all’alcol, con l’intento di mostrarci un altro esempio del sogno americano, del figlio di immigrati che lotta duramente nel mondo di Tin Pan Alley (l’industria musicale newyorchese) e ce la fa a sfondare, ad avere successo, soldi e donne, la sua autentica ossessione, diventando uno dei personaggi più influenti del suo paese.

 

 

Tenendo sullo sfondo le notevoli contraddizioni (dai rapporti con Sam Giancana e la mafia alle sue malefatte col RatPack- il gruppetto formato con Dean Martin, Sammy Davis jr, Peter Lawford e Joey Bishop- e il misterioso rapimento del figlio Frankie junior, fino alla «conversione» repubblicana, amicone di Nixon e Reagan) e le pesanti ombre caratteriali, magnificando giustamente il suo lato progressista, aver lavorato spesso con strumentisti afroamericani (da Count Basie a Quincy Jones) ed essersi battuto per le minoranze (c’è naturalmente il cortometraggio antirazzista The House That I Live In, menzione speciale all’Oscar 1946).

 

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Gibney ha riutilizzato meravigliosamente i materiali d’archivio a disposizione, in questo superbo omaggio ad un grandissimo divo della radio, della musica e poi del cinema e della televisione, una maniera di passare questa affascinante leggenda alle giovani generazioni che non l’hanno conosciuto direttamente ma possono apprezzare la sua voce fluida e intonata, il suo impareggiabile senso dello spettacolo (nei tanti frammenti di show presenti grazie all’archivio familiare), le appassionanti testimonianze di amici, colleghi di lavoro, giornalisti e impresari. Tranne alcune interviste televisive di Frank, non c’è nessun protagonista che guarda in camera, sono tutti frammenti audio o racconti, montati alla grande con foto, video, filmati.

 
Così, quando Frank viene messo sotto contratto dalla Columbia Records infilando ben ventitre grandi successi tra il 1943 e il 1944, veniamo catapultati nelle prime scene di isteria di massa per un artista (ben prima di Elvis e dei Beatles), nell’ enorme fila per i biglietti davanti al Paramount Theatre di New York, con orde di ragazzine urlanti con giornali, autografi, in gran parte teenager coi calzini corti bianchi, le famose bobbysoxer ma pure mamme e signore di mezzetà, che scandiscono il nome di Sinatra, cantano le strofe delle sue ballate romantiche, si spingono forsennatamente per arrivare a toccarlo, fino a organizzare il fan club Sighing Society of Sinatra Swooners, your appassionate slaves (la Società Sospirante delle Svenute per Sinatra, le schiave appassionate). «In quel periodo facevo solo brani lenti lunghi 6-7 minuti, servivano alle coppie di ragazzi per potersi abbracciare e ballare piano piano e stretti stretti».

 
Tra alti e bassi, ol’ blue eyes va in crisi col pop leggero degli anni ’50, perde il contratto discografico e divorzia dalla moglie. Ma torna in sella, velocemente col matrimonio con Ava Gardner e l’Oscar per la sua interpretazione drammatica in Da qui all’eternità. Il periodo delle canzoni da saloon e il contratto con la Capitol prima di fondare la sua propria etichetta, nel 1960, la Reprise, dove porta a lavorare i suoi storici amici, a cominciare dall’arrangiatore con riconoscibile struttura tema-ritornello Nelson Riddle fino al chitarrista Tony Mottola, compagno d’infanzia e amico fraterno. E le stagioni a Las Vegas e a Cuba, i ritorni televisivi e cinematografici fino alla raffica finale, con My Way,The Lady is a Tramp e New York New York, che rende merito a un interprete ancora smagliante (a 56 anni, nonostante gli eccessi di sigarette, alcol, stravizi e jet set dorato), un’icona della cultura americana del XX secolo (certamente con l’aiuto degli abbellenti uffici comunicazione), sempre però col limpido e avvolgente incedere di una voce da autentica superstar.