In chiusura di concorso, insieme a Hannah di Andrea Pallaoro, arriva anche l’opera prima di Xavier Legrand, attore di teatro e di cinema (tra gli altri per Garrel, Brigitte Sy, Benoit Cohen) e regista francese autore di un premiatissimo corto, Avant que de tout perdre, candidato per la Francia agli Oscar e vincitore ai Cesar. I due registi, Legrand e Pallaoro, oltre a una prossimità anagrafica – 38 anni Legrand, 35 Pallaoro – hanno in comune la materia narrativa dei loro film, cosa che probabilmente ha determinato l’unione nel calendario, seppure declinata con scelte di stile quasi antitetiche. Jusqu’à la garde, che in italiano si può tradurre come L’affido, è anch’esso una storia familiare di lacerazioni, ferite del cuore forse insanabili, al cui precipitare contribuiscono decisioni giudiziarie affrettate – una giudice stabilisce l’affido congiunto di un ragazzino al padre nonostante il piccolo gridi con tutte le sue forze di odiarlo e di non volerlo più vedere nella sua vita. Ma se Pallaoro sceglie la strada della messinscena in antitesi alla sceneggiatura, Legrand si appoggia interamente alla pagina scritta per bilanciare una regia piuttosto timida, con molte incertezze, che utilizza in modo corretto e senza impennate le caratteristiche del genere «domestico».

Siamo in una provincia francese, i coniugi Besson, Denis Menochet e Lèa Drucker, si sono separati, lei è fuggita portandosi via i figli, una ragazza ormai quasi maggiorenne, e un ragazzino di undici anni, Julienne (Thomas Gioria, bravo), lasciando tutto, le sue cose, il lavoro, l’appartamento comperato insieme al marito per rifugiarsi dai genitori. Lo accusano di essere violento, ossessivo, di perseguitarli, di averli picchiati, aggrediti; il ragazzino al padre lo chiama «quello», la madre cambia di continuo numero di telefono, spia la porta, sobbalza a ogni rumore. Ma l’uomo vuole occuparsi del figlio, si presenta come un padre amorevole –certo solo a vederlo rozzo e con passione per la caccia sorgono dei dubbi. La donna si oppone e forse non rivela tutto, il piccolo sarà costretto così a passare i fine settimana diventando il terreno di scontro tra i due genitori, e il testimone di un malessere che cresce sempre di più fino alla prevedibile esplosione.

«La casa è l’ambiente dove si crea la nostra vita, dove ci si sente sicuri. Cosa succede quando la casa da rifugio diventa invece luogo di paura? Quali sono le dinamiche che si scatenano? Volevo affrontare il tema della violenza domestica perché è ancora un argomento tabù» dice il regista che però invece di addentrarsi cinematograficamente nell’ossessione, sceglie una cifra «ordinaria», fatta di dialoghi, personaggi abbastanza formattati, situazioni prevedibili, di cui il padre, diventa il centro, l’orco cattivo di una brutta fiaba.

Non è questione di aderenza o meno alla realtà, il tema del femminicidio è certamente molto attuale, Legrand non dà ai suoi personaggi la compattezza necessaria a garantire l’ambiguità a cui aspira il racconto. Tutto è molto evidente, sin troppo, esattamente come lo si aspetta.