*La storia dell’annientamento di tutte le copie del grande film «Il prato di Bezhin» Sergej Eisenstein fa parte delle «horror tales» dell’epoca di Stalin. Pavlik Morozov, un ragazzo di campagna fervente comunista, denuncia il padre per aver nascosto il grano che avrebbe dovuto consegnare allo stato sovietico. Questi uccide il figlio delatore, il quale diventa un esempio di martire del comunismo e si trasforma in un’icona di regime.
Partendo da questo mito della vittima sacra, tipico di tutte le dittature, e dopo aver esplorato gli abissi freudiani della psiche, il regista ha realizzato un’opera che è non una storiella didattica, ma una parabola di respiro biblico.
La pellicola, ancor prima di essere terminata, non soltanto venne disapprovata, stigmatizzata e vietata, ma fu distrutta. Era il 1937, l’anno del «grande terrore», in cui a morire non erano solo le persone.
Il film sarebbe potuto rimanere un «capolavoro ignoto», se non ci fosse stata una miracolosa ricostruzione effettuata nel 1971 dai cineasti Sergej Yutkevitch e Naum Kleyman. Questo breve montaggio di fotografie, che è stato proiettato in innumerevoli festival del cinema in tutto il mondo, colpisce per la sua coerenza e integrità. Non si tratta di brandelli sconnessi. Davanti a noi c’è lo scheletro di un’opera possente, le rovine di un Colosseo cinematografico.
Sembrano oggi storie, antiche, come le guerre puniche… Ma è proprio così? Ma non molto tempo fa, sfogliando i documenti d’archivio nella Cinecittà moscovita, la «Mosfilm», ho preso in mano la cartella del famigerato 1937. Ho letto dei sontuosi piani delle future produzioni, e dei violenti contrasti tra il ministro Shumiatsky e il regista Eisenstein, che si conclusero con la distruzione di Prato di Bezhin, il presunto maggior blockbuster dell’epoca; ho letto i resoconti del «disastro finanziario» e le invettive contro chi era accusato di «lavorare poco e male» (sappiamo invece che il gruppo di Eisenstein era composto di persone di talento e dedite totalmente al lavoro). C’erano notizie sugli arresti in atto, che decimarono i quadri dell’amministrazione del cinema sovietico, senza risparmiare lo stesso Shumiatsky. C’erano notizie di una riprogrammazione straordinaria del piano di produzione: un film su Lenin. Suoni di fanfara all’annuncio di una «miracolosa salvazione» dalla bancarotta dello studio cinematografico perché ai leader del partito era piaciuto molto quello «straordinario» film su Lenin di Mikhail Romm.
Studiando questi documenti che parlano di un «riammodernamento conservativo» tipicamente sovietico, mi sono resa conto che una persona che aveva preso parte a quella vicenda era ancora viva. Una testimone di tutta quella fantasmagoria, che aveva maneggiato quella pellicola mutilata di Eisenstein: l’addetta al montaggio del film Il prato di Bezhin, ultranovantenne…
Pensando a quali fama e gloria avrebbero dovuto circondare questa straordinaria «persona grata», le ho telefonato chiedendo di concedermi un incontro. Volevo raccogliere una testimonianza di prima mano di ciò che era successo alla Mosfilm nel 1937. Ho invitato all’incontro anche la famosa documentarista Marina Goldovskaya. Bisognava immortalare il tutto per la storia. Siamo andate in tre: io, Marina e la macchina da presa.
Sull’ampia strada inondata dai raggi del sole estivo, nel villaggio dei cineasti, la casa sembrava impersonare il monumentalismo staliniano. Androni squallidi, soffitti altissimi, planimetrie di largo respiro, questa grandeur impressiona ancor oggi. L’ascensore scricchiolante ci scarica di fronte a una porta molto approssimativa. Fira Tobak, evidentemente, non ci teneva a sostituirla con una porta blindata come perlopiù avevano già fatto gli abitanti di Mosca, città altamente insicura. A lei, figura leggendaria del cinema russo, era assegnata solo una stanza in un piccolo appartamento in coabitazione, con i servizi in comune. E quella stanza era tanto spoglia che la parola giusta per descriverla sarebbe piuttosto «nuda». Solo il mobilio indispensabile. Un frigorifero vecchio e robusto come un carro armato – 34 (in camera, perché non lo si poteva lasciare in cucina alla mercé della insidiosa coinquilina). La padrona di casa sembra minuscola, quasi non occupa spazio in quel cubo spoglio.
Le facciamo delle domande sulla vita alla Mosfilm degli anni Trenta. Risponde come una partigiana catturata. «Non so nulla, non ho visto nulla, non ho sentito nulla». – «Ma come, se sono stati arrestati sia il vostro direttore, sia il cameraman Nielsen, sia il produttore Darevsky, come avrebbe potuto non saperlo?». – «Noi, aiuti al montaggio (io non ero neppure stata ancora nominata addetta al montaggio, ero solo aiuto addetta), stavamo nella nostra stanza e dovevamo solo tagliare e incollare, non sapevamo niente della vita del Mosfilm. Ogni tanto compariva la redattrice Sokolovskaya. Ecco, di lei vi potrei raccontare».
… Nel momento in cui questo colloquio avveniva, era passato già mezzo secolo dopo la morte del terribile Stalin. Avevamo già vissuto il «disgelo» e la «perestrojka», e poi la rivoluzione capitalista eltsiniana. C’era già il nuovo secolo, il nuovo millennio. Ma in quella camera spoglia, come scavata nel permafrost, aleggiavano ancora i brividi degli anni Trenta. Gradualmente anche io mi sentii presa da quella paura, da quei brividi. Si aprirono in me le lontananze ataviche della memoria infantile e riaffiorarono quelle notti che mio padre passava attaccato alla finestra a guardare se una macchina della polizia politica non stesse imboccando il nostro vicolo Kozichinsky dalla parte degli Stagni del Patriarca, luogo della scena iniziale del Maestro e Margherita.
Mio padre aveva già alle spalle un arresto e un periodo di detenzione negli anni Trenta, ma era stato liberato a un certo punto, perché al regime staliniano servivano specialisti giovani, anche se non membri del partito. E di nuovo quella vecchia sensazione, «ci resto o mi salvo?»
La stessa sensazione, ovvio, che ha provato questa Fira. Ma da lei non ricaviamo nessun particolare: solo questa testimonianza muta. Ha funzionato la macchina del tempo? Il «grande freddo» sparisce solo quando abbandoniamo il discorso sulle purghe staliniane e passiamo a Eisenstein. Fira Tobak diventa un’altra persona: amabile e loquace. Arrivata a Mosca dalla profonda provincia ucraina, naturalmente, fu felice di lavorare con un regista del calibro di Eisenstein. Cercava di capire tutto, captare tutto. Abitavano nello stesso caseggiato, e, all’occorrenza, lei poteva passare a trovare il Maestro anche per qualche piccola necessità quotidiana, e passava anche lui ogni tanto, lui era allegro, scherzava sempre.
Quando Il prato di Bezhin è stato condannato a morte, Eisenstein accennò a Fira che gli sarebbe piaciuto conservare qualche fotogramma come ricordo. Lei comprese, si sedette alla sua postazione di lavoro e con metodo, rivedendo tutto il materiale, tagliò con le forbici tre fotogrammi dall’inizio e tre fotogrammi dalla fine di ogni episodio, mise tutto in una scatola di latta per caramelle e la consegnò al Maestro. Ecco perché la ricostruzione che si è potuta fare quarant’anni dopo è risultata così completa e lineare. Dobbiamo ringraziare non il caso, ma la mano decisa di Fira Tobak, «quella ragazza discreta e intelligente». Poi lei stessa è diventata un’autorità nel proprio campo, ha lavorato al montaggio di innumerevoli opere. Nella sua stanza spoglia di onesta lavoratrice socialista, circondata da antiche paure e da un’insidiosa coinquilina, si conservano dei tesori: libri autografati. Sui quali non ci sono banali dediche di circostanza, ma ringraziamenti «a colei che mi ha insegnato il montaggio dei film sonori». Firmato: Sergej Eisenstein. Firmato: Mikhail Romm.
La salutiamo e usciamo nel pomeriggio moscovita rovente. Fuori è estate. Fuori c’è il Terzo Millennio.

*© Maya Turoswskaya, 2015
intervento tenuto alla Milanesiana, – Letteratura Musica Cinema Scienza Arte Filosofia e Teatro. Ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi