Un altro passaggio nel cammino della riforma costituzionale si è consumato. La Camera ha approvato, con limitate modifiche, il testo già licenziato dal Senato con 357 voti favorevoli (pari al 56,6%) dei componenti. Siamo ben lontani dalla larghissima condivisione che si registrò alla Costituente. Perso anche il principale alleato (Forza Italia), questa risulta una riforma fortemente voluta soprattutto dal Pd (309 deputati) che si è mostrato compatto: soltanto Civati, Boccia, Fassina e Pastorino non hanno votato. Certamente, tra gli stessi “democratici” ci sono molte voci critiche che continuano a chiedere modifiche (del testo a favore del quale hanno votato); ma quali sono gli spazi residui per migliorare la riforma?

L’articolo 104 del Regolamento prevede che «se un disegno di legge approvato dal Senato è emendato dalla Camera dei deputati, il Senato discute e delibera soltanto sulle modificazioni apportate dalla Camera, salva la votazione finale. Nuovi emendamenti possono essere presi in considerazione solo se si trovino in diretta correlazione con gli emendamenti introdotti dalla Camera dei deputati». Essendo poche (e complessivamente marginali) le modifiche apportate dalla Camera al testo già approvato dal Senato lo scorso 8 agosto, quest’ultimo sembra quindi destinato a poter intervenire limitatamente. E non sugli aspetti di maggiore rilievo, come la partecipazione dei cittadini (negli istituti di democrazia diretta e nelle elezioni delle Camere), la semplificazione del procedimento legislativo (che finisce per divenire più complesso) e la coerenza tra riforma delle Camere e quella del titolo V (su cui si è caduti in aperta contraddizione).

Lo spazio a disposizione è quindi angusto. Oltre agli emendamenti modificativi (eventualmente anche per rinviare l’entrata in vigore di disposizioni particolarmente mal riuscite), si potrebbe intervenire con alcuni emendamenti aggiuntivi, anche in sede di disposizioni transitorie, ma, all’interno di questo testo – e quindi di questo percorso ri-costituente – sembra difficile incidere, soprattutto a regime, sulle questioni più delicate e caratterizzanti.

In sostanza, una discussione frettolosa e disordinata, tra i “canguri” del Senato e il “fiume” (in piena) della Camera, sta consolidando un testo che, pur largamente criticabile e criticato (ripetiamo: molto singolarmente anche da chi lo ha votato), costringerà presto i parlamentari a votare a favore o contro il complesso della riforma, secondo quanto previsto per la seconda lettura dai regolamenti di entrambe le Camere.

Come tra un complessivo e onnicomprensivo ’sì’ o ’no’ saremo costretti a scegliere noi elettori nell’eventuale (ma molto probabile) referendum costituzionale. In quell’occasione, in definitiva, potremo solo prendere o lasciare: cioè votare per una riforma costituzionale che rischia di rendere il funzionamento delle istituzioni (e soprattutto del Parlamento) ancora più complesso, contorto e incoerente o per il mantenimento del testo vigente che, pur avendo dato complessivamente buona prova di sé (a differenza delle forze politiche), richiederebbe di essere alleggerito nel numero dei parlamentari, di essere reso più efficace nell’assunzione delle decisioni e nel controllo del Governo da parte del Parlamento, di favorire in modo più adeguato la partecipazione dei cittadini.
Per uscire da questa poco allettante alternativa non rimane che verificare in concreto, attraverso tutte le tecniche a disposizione, quale sia il margine per evitare almeno le modifiche più contorte e incoerenti, nell’auspicio (che ha ormai davvero poche possibilità di realizzarsi) di poter arrivare ad un disegno autenticamente riformatore che, rispondendo agli unici impegni davvero assunti con gli elettori, diminuisca anzitutto il numero dei parlamentari potendo, con questo e altri limitatissimi interventi, migliorare la forza del Parlamento rendendolo più efficiente. Ad oggi, tuttavia, purtroppo, l’ipotesi di gran lunga più probabile è che ancora una volta si perda l’occasione per una buona riforma costituzionale.