La strada di La caduta del cielo verso la pubblicazione in Italia si apre due anni e mezzo fa. Lo ricorda Andrea Gessner, direttore editoriale di Nottetempo: «Decidemmo di tradurre un saggio dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo e venire?, scritto con la filosofa Debora Danowsky. Il saggio si interroga sulle paure della fine del mondo. Uno degli argomenti trattati è il mito della Creazione, e fra i testi in tema compare La chute du ciel. Affidammo la traduzione a Lucera e Palmieri, che erano in ottimi rapporti con Viveiros de Castro. Qualche mese dopo, furono loro a mostrami una copia dell’opera di Kopenawa e Albert. La comprai, la lessi e mi fu subito chiaro che dovevo intraprendere questa avventura. Per me, per la redazione, per la casa editrice, il libro ha un’importanza fondamentale. Perché vivifica la tradizione di Nottetempo nell’indagine delle scienze umane, è l’apertura a un altro modo di vedere, vivere e stare sulla terra».
Va da sé che le mille pagine de La chute sono state consegnate alla coppia Lucera e Palmieri, ricercatori indipendenti, laureati in filosofia alla Sapienza di Roma, impegnati politicamente sul fronte No TAV e No TAP, traduttori per passione e non per professione: «Avevamo già tradotto vari testi negli anni dell’università per la rivista del nostro gruppo politico. Il saggio di Danowsky e Viveiros de Castro ci sembrò molto interessante, lo portammo dal portoghese all’italiano, facendolo girare tra amici e compagni. Successivamente ci venne l’idea di contattare Viveiros, che ci autorizzò a cercare un editore in Italia. Tramite amici, arrivammo a Nottetempo».

Quanto è durata la lunga fatica della «Chute»?

Fra studi preliminari per entrare nell’argomento, traduzione, revisione, diciamo due anni.

Cosa ha rappresentato per voi, cosa vi ha fatto comprendere, cosa vi ha lasciato questo lavoro?

Quando abbiamo letto la versione originale, ci siamo resi conto di aver trovato un piccolo tesoro; qualcosa che per noi, in quel momento, rappresentava una possibile via di uscita da alcune impasse teoriche cui i nostri studi ci avevano portato. Tradurre il libro è stato un nuovo inizio del nostro percorso di ricerca.

Sul piano strettamente operativo, cioè della resa del testo, quali sono state le difficoltà maggiori?

Abbiamo avvertito molto forte e immediato il senso di responsabilità nei confronti di Kopenawa e Albert. Si trattava, quindi e prima di tutto, di rendere giustizia alla bellezza, alla profondità, alla complessità della filosofia e dell’estetica yanomami. Parallelamente, occorreva tenere in considerazione nella massima misura quello che è il contesto politico e sociale in cui gli yanomami portano avanti da decenni la loro lotta. Infine, una volta compreso, con molta fatica, cos’è il mondo foresta e come ci si vive, abbiamo cercato, attraverso il linguaggio, non solo di essere aderenti al testo, ma anche di restituire al lettore la dimensione di quel mondo.