I giornali francesi di ieri, in particolare il quotidano Libèration, tra gli interstizi di un’edizione domInata dallo shock per vittoria di Le Pen, commentava così i risultati del Festival di Cannes: «Un palmarès perfetto». A tal punto ineccepibile a loro avviso nel toccare tutte le corde da rischiare di apparire ecumenico. La sola vera sorpresa, e quella che ai loro occhi risulta essere anche l’unica scelta motivata da passione personale è il Grand Prix della giuria al « fascino singolare» di Le meraviglie.

A qualche giorno di distanza le scelte della giuria guidata da Jane Campion si confermano invece molto buone. Il riconoscimento a Jean Luc Godard, intanto, l’occhio saggista della Nouvelle Vague premiato col Leone d’oro da Bertolucci alla Mostra di Venezia (Prénom Carmen, 1983) sulla Croisette contestata nel Sessantotto non aveva mai vinto nulla. E Julianne Moore (Cronenberg come Godard mette a nudo i suoi personaggi mentre fanno la cacca) invece della diva nazionale Marion Cotillard fin troppo perfettina con le sue lacrime allo Xanax per i Dardenne di Deux jours, une nuit. Si è poi prediletto il formalismo strabico e fracassone di Xavier Dolan (seppure a rischio compiaciuto) e del suo Mommy al cinema raggelato di Still water di Naomi Kawase.

Certo la Palma d’oro   2014 non è una Palma che dichiara una scelta di cinema forte, non «osa» una scommessa di stile alla Cronenberg – quando premiò i Dardenne di Rosetta ma erano tanti anni fa e probabilmente un film come Rosetta oggi non lo metterebbero in concorso – o Tarantino che ha dato il Leone a Sofia Coppola o ancora James Gray che allo scorso Festival di Roma ha votato per Tir. Ma comunque,appunto, la giuria di Cannes 67 non ha ceduto all’ovvio del cinema riposante, senza spigoli nell’idea malintesa di «cinema popolare», Ceylan è un regista «di» Cannes, ha una sua cifra su cui lavora con variazioni minime sin dai primi film. E una geometria di messa in scena, qui esasperata nelle tre ore di reminiscenze cecoviane, che tuttavia non rimanda mai, e in nessun film, in modo esplicito alla «realtà« della Turchia. Presa di posizione netta nei confronti di quel neocolonialismo dell’immaginario (al quale si piega anche il pomposo ammiccamento agli anni di gloria italiani messo in atto da Sorrentino nella sua Grande Bellezza) che dal cinema del «sud del mondo» pretende sempre selfie miserabilisti.

l regista turco utilizza la lente della borghesia, e di un maschile in crisi, riflesso sensibile di sè stesso, nel quale fa scorrere il disagio conflittuale del mondo intorno. Può essere amato o detestato – Winter Sleep uscirà in Italia distribuito da Parthenos e Lucky Red – ma comunque è un lavoro di ricerca personalissimo. Se poi lo si guarda dal punto di vista della selezione il palmarès 2014 appare ancora migliore. E la sorpresa Le Meraviglie ancora più bella. Il film di Alice Rohrwacher, infatti, è insieme a pochi altri un film libero nella narrazione e nella visualità, che tocca temi complessi con delicatezza, senza imporre dall’alto una visione del mondo. Alice Rohrwacher sa dove andare con le sue immagini, e non utilizza artifici di moda, non si chiude in riferimenti protettivi pur dimostrando già alla seconda prova di essere un’autrice, con un suo tocco riconoscibile, e al tempo stesso in trasformazione (un po’ come il suo personaggio protagonista).

E non è questione di età, non quella anagrafica o di entusiasmo giovanile almeno. La stessa libertà la troviamo in Godard, (anni 83) stavolta poi in 3D con cui spoglia l’occhio delle sue abitudini. Mentre Xavier Dolan, che di anni ne ha 25, con Mommy ha smesso di essere «giovane autore» ripetendo in circolo, pure se con generoso isterismo, la sua poetica – e in questo senso era molto più spiazzante Tom a la ferme, il film in gara a Venezia. Il problema è che il selezionatore Frémeaux non assume nel suo lavoro non dico nessun rischio, ma almeno un guizzo – e ancora Le meraviglie era l’unico difatti qualcuno diceva che era più da Certain Regard. Ovvero: non è abbastanza imbalsamato per il concorso, come se solo la mummificazione fosse il requisito per arrivare alla «classe A». Difatti nel Certain Regard ce ne erano di film più forti, Amor fou di Jessica Hausner o La chambre bleu di Mathieu Amalric, che non si capisce perché per la Francia sia stato selezionato l’orrendo The Search di Azavinicous se non per offrire il giochetto mediatico dei titoli sulla guerra in Cecenia ecc.

O allora perché non scommettere su un film come Bande de filles di Celine Sciamma, catturato dalla Quinzaine. Per non dire di Queen and the Glory, sempre alla Quinzaine (bravo Edouard Waintrop) capolavoro di John Boorman, anche lui ottantenne come JLG ma capace di una lucidità filmica entusiasmante, e lasciarlo fuori preferendogli un Ken Loach stanchissimo è sembrato davvero da parte del selezionatore un errore tattico. Il fatto è che il festival francese si è anche messo dei paletti che lo condannano e gli impediscono un confronto vispo onfrontarsi con ciò che succede nel cinema, con le sue trasformazioni e le tensioni che ne attraversano i diversi risultati – e questo lasciando anche da parte gli obblighi delle quote produttive.

Nel 2014 appare abbastanza ridicolo che i documentari non abbiano accesso alla competizione, così è finito in proiezione speciale Eau argentee di Ossama Mohammed e di Wiam Simav Bedirxan, uno dei film più emozionanti visti in questo festival per la sua capacità di confrontarsi con il sistema delle immagini, come si racconta una guerra, i morti, il dolore la resistenza.

Lo scorso anno Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini era fuori concorso, da noi ha vinto il David come migliore documentario, e il film ha fatto il giro del mondo e di premi. National Gallery di Fred Wiseman non lo ha nemmeno considerato, lo scorso anno si sono accorti di Lav Diaz che da anni è tra i grandi cineasti contemporanei. Niente cartoon, e un altro film meraviglioso, un capolavoro quale Il racconto della principessa Kaguya di Isao Tagahata, cofondatore dello studio Ghibli con Miyazaki, lo abbiamo visto alla Quinzaine. Fremeax ha preferito il Giappone in carne e ossa di Naomi Kawase con Still Water, film con due sequenze familiari memorabili – quelle più «documentarie» che entrano nel quotidiano di tenerezza della famiglia protagonista – e un impianto complessivo in cui la regista giapponese ritorna sui luoghi delle sue storie senza l’energia originaria.

Non ci aspettiamo le scoperte dai grandi festival ma anche perché no. Mischiare le carte, e non lasciare solo alle cosiddette sezioni parallele il piacere di scompigliare le regole dell’immaginario mondiale è soprattutto oggi necessario. La Croisette resta un luogo cruciale per il cinema mondiale ma grandezza di un Festival non è innata. E forse quello di Cannes dovrebbe cominciare a guardarsi intorno con occhi «obliqui».