A periodi i pagliacci perforano l’immaginario e diventano reali, e viceversa. Da ultimo è stato il Joker interpretato da Joaquin Phoenix a farci stremare, commentare, delirare, tanto che poi pure alla festa dei morti ne vedevi a branchi di ragazzini conciati a quel modo. Negli States intanto i cinematografi si dotavano di metal detector che un M16 sotto alla giacca rossa può sempre scapparci.

Nei loro confronti esiste qualcosa di morboso, com’è stato per It, specialmente il Pennywise del 2017, o Twisty della serie American Horror Story, o le stesso Krusty dei Simpson, quell’adorabile balordo che detesta i bambini e assurge a tutti i vizi dell’umano arrogante privo di qualità. E forse non è nemmeno un caso che McDonald’s con un clown ci abbia costruito un impero che uccide con i polifosfati. Nel film di Todd Philips è evidente la propensione dello spettatore a rispecchiarsi nelle semplificazioni della sconfitta, nella frustrazione quotidiana del perdente cronico e dell’emarginato, personificazione ancora più calzante durante una bella crisi economica con conseguente restringimento dei diritti. Che nella drammaturgia cinematografica assume la retorica del viaggio dell’eroe sconfitto (il clown attore) e pronto a risorgere (nel clown reale). Ancora meglio se con vendette sanguinarie e fuochi d’artificio.
L’ambivalenza risata/terrore insita nel personaggio non ha nulla a che vedere con il modello infantile del clown. Forse per questo malinteso Pennywise è stato addirittura messo al bando dalla World Clown Association, accusato di affossare il mercato di animazione dei pagliacci, con i dentini da squalo e gli occhi verdi da serpente piallati irrimediabilmente nel cervello in evoluzione delle creature che vorrebbero festeggiare il loro compleanno solo col sorriso.

Ma l’industria dell’intrattenimento puerile del clown era già stata sgominata da un tizio, John Wayne Gacy, che si era creato il personaggio di Pogo il Clown proprio quando compiva il suo volontariato con i bambini. E che a Chicago uccise e torturò 33 adolescenti fra il ’72 e il ’78. Raccontano che fosse un insospettabile vicino.

Certe paure viscerali risiedono anche nel grottesco, nell’innaturale quindi, nell’ipertrofico, nel deforme. Naso rosso, cerone bianco e rosso per una bocca sbracata, ciocche di capelli arancioni, cappelli bizzarri. Storicamente nel circo i clown sono due forze contrapposte, il clown Bianco e l’Augusto: il primo è elegante, con le pomposità dell’angelo, ha le movenze decise, gli interventi sono determinati e anche aulici; l’altro è raffazzonato, con abiti di taglie più grandi, le scarpe grosse, impacciato, fannullone, a cui non riesce nemmeno l’imbroglio senza farsi scoprire. Sono il ricco e il povero, lo scemo e l’arguto, il forte e il debole, il dolce e il violento, l’adulto e il bambino, la vittima e il carnefice, festa e morte come ne Il funambolo di Genet. In scena – come nella vita quotidiana – va la lotta fra l’apollineo e il dionisiaco, mentre il pubblico può finalmente purificarsi (Aristotele) da quegli istinti che lo sfruculiano inconsciamente ma senza – si spera – l’uso di un’arma automatica.

I due clown allora incarnano i paradossi dell’uno, di ognuno, tanto che quella duplicità viene anche rappresentata da un unico artista (specialmente con l’attuale crisi dei circhi classici) pronto ad assumere la maschera comica, malinconica, terrorizzante, imbarazzante e tante altre. L’azione diventa un soliloquio del corpo e della voce seppur in polifonia e in cui inconsapevolmente ci rappresentiamo, rivelandoci a nostra volta come pagliacci post-contemporanei.

La citazione è d’obbligo, Nietzsche in La nascita della tragedia: «Questi due istinti così diversi camminano uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio, stimolandosi reciprocamente a sempre nuove e più gagliarde reazioni per perpetuare in sé incessantemente la lotta di quel contrasto, su cui la comune parola di “arte” getta un ponte che è solo apparente». Così la maschera buona e quella cattiva del clown vivono in una condizione liminale, ma il punto – per ritornare al viaggio dell’eroe – è che senza conflitto non c’è storia, il conflitto si rappresenta in due o contro se stessi. Da lì appunto la tragedia.
Nel circo il due, la dualità, è il cemento con cui si amalgama lo spettacolo. Amore e odio per esempio sono parte di un dualismo scenico che viene continuamente stravolto; si può percepire nell’acrobatica o nel mano a mano, con i due corpi che per vincere le forze della natura devono affidarsi all’altro, mentre si intravede la sfida, nello sviluppo delle forme e nell’annullamento delle resistenze. Agli occhi dello spettatore può essere presentato come un gioco, una competizione o semplicemente come esecuzione virtuosa. Oppure una riflessione su se stessi e il desiderio dell’altro.

A questo punto si può allargare il campo e intuire che si tratta della vita circense in toto, nella sua trasversalità, a diventare doppia: lo spirito libero e anarchico contrapposto alla ritualità dei massacranti turni di lavoro, agli atti scaramantici e agli allenamenti svolti quando si spengono le luci dei riflettori. Qualcosa che fa parte certo della tradizione ma che si reitera nel presente, nella formula contemporanea. Oppure l’abito tipico del circense, la montura (una giacca originariamente militare, con il collo alto alla coreana e in taluni casi con il posteriore a coda di rondine, bottoni a destra e a sinistra o ornamenti di corda, con le mostrine sulle spalle), che viene indossata sia dall’operaio che all’ingresso vi staccherà il biglietto, che dal capofamiglia che presenterà la serata.
Un modo per unire l’alto e il basso della gerarchia, malgrado poi resti una rigida organizzazione clanica.

Il circo vive su un’altalena di significati di cui si tenta di annullare l’apparente dicotomia, a partire da quella più lampante che risiede nel rischio di rompersi l’osso del collo e dove vita e morte si fanno spettacolo. Cerca punti di contatto (o di equilibrio) in elementi apparentemente opposti, per esempio la pallina del giocoliere verrà lanciata quando la prima sarà già in alto, nel punto preciso di sospensione in cui la «forza celeste» e quella di gravità sembrano annullarsi.

Una volta un clown – uno che lo è di professione e anche di un certo livello, con premi vinti in questo e in quell’altro paese e che campa girando il mondo coi suoi spettacoli – ha raccontato di un suo collega giocoliere di strada: dopo le gag doveva realizzare il classico numero con 7 palline e accadde che, quando era in scena, non riusciva a tenerle su, tanto che, a un certo punto, si fece scuro in volto, bestemmiò e si ritirò sconfitto dietro alla quinta che però, di pomeriggio con il sole, diventò trasparente. Mentre il poco pubblico se ne andò deridendolo, il clown professionista lo vide tentare e riuscire alla prima. Alla perfezione. In scena questo performer è diventato reale all’improvviso, e solo nel suo angolino privato è tornato attore. Una dualità senza fine. Ma, visto che uno dei principali motori della narrativa è la vendetta, il prossimo Joker assassino potrebbe essere quel tale, pur di riconciliarsi con se stesso.