Un sorriso venuto male. Così Tim Curry aveva genialmente descritto la sua lettura di Pennywise in occasione dell’adattamento di uno dei più grandi (anche in senso letterale, 1200 pagine) tra i libri di Stephen King. Commissionata dalla ABC, la miniserie tratta da It, era stata, nel 1990, una delle primissime apparizioni di una produzione horror nella fascia di punta della serata tv e – diretta da un artigiano del genere come Tommy Lee Wallace (Halloween III: Season of the Witch, Frighnight 2) e co-scritta dallo sceneggiatore di Carrie, Lawrence D. Cohen- un grosso successo di critica e di pubblico, anche grazie all’interpretazione estaticamente frenetica e malevola di Curry.

Ventisette anni dopo, il sadico/sanguinario pagliaccio kinghiano, nel nuovo adattamento scritto e diretto dall’argentino Andy Muschietti, domina il botteghino cinema americano (con oltre 223 milioni di incassi in 2 week end – per un budget di 35 milioni, in Italia lo vedremo dal 19 ottobre) e stabilisce il record assoluto per le uscite di settembre, in un anno già segnato da una grande riscossa dell’horror, con successi a tutto campo come Split e Get Out, e dalla splendida, miliare, vittoria veneziana di Guillermo del Toro, con The Shape of Water. Insieme questo nuovo vigore del genere, anche King sta attraversando una riscoperta sugli schermi: ben cinque gli adattamenti nel giro di pochi mesi – oltre a It, il film Dark Tower mentre per la tv ci sono Mr. Mercedes (con Brandan Gleason nel ruolo del detective in pensione Bill Hodges), The Mist e Castle Rock.

Se la Golden Age del cinema secondo Stephen King rimane l’America reaganiana (Shining, Creepshow, Cujo, The Dead Zone, Stand By Me, Silver Bullet, Children of the Corn, Maximum Overdrive…) è interessante che l’immaginario rural/orrorifico dello scrittore del Maine torni ad essere «di moda» in quella di Trump. Non a caso, tra i nuovi adattamenti citati sopra che abbiamo visto, i migliori – It e Mr. Mercedes- sono di gran lunga quelli in cui il milieu della cittadina di provincia in cui è ambientata la storia è un protagonista importante almeno quanto la creatura malvagia che cerca di distruggerlo.

Più che alla versione di Tommy Lee Wallace, infatti, per il suo It Muschietti sembra aver fatto riferimento a uno dei film da King meno venati di soprannaturale, Stand By Me, di Rob Reiner. È quel tono da romanzo (avventuroso) di formazione spielberghiano che anima il suo film, che si svolge –come Call Me By Your Name di Luca Guadagnino- nel tempo sospeso di un’estate in campagna, tra corse in bicicletta, tuffi nell’acqua verde e freddissima di un lago di montagna e languori adolescenziali. Rispetto alla costruzione del libro, fatta di andirivieni temporali, Muschietti adotta una struttura narrativa lineare che prevede un primo film in cui i protagonisti sono bambini e un secondo (già previsto dalla WB), ambientato ventisette anni dopo, in cui sono adulti.

L’inizio, sotto un’acqua scrosciante, è cattivo come quello del carpenteriano Distretto 13. Solo che il controcampo di Georgie – minuscolo, con l’impermeabile giallo e la barchetta di carta che gli scappa, in un ruscello di pioggia- non è la bocca di una pistola ma il primo piano grottesco di un clown che lo guarda dall’oscurità dello sbocco di scolo di un marciapiede. Il ventisettenne Bill Skarsgard (figlio di Stellan e fratello di Alexander) dà al volto di Pennywise, il clown ballerino (e la versione infernale del classico pagliaccio di McDonald) la mobilità e i tratti esagerati di un disegno di Dr. Seuss che morfa in una bocca dentuta come quella di Alien.

Nel giro di un attimo tutto ciò che rimane di Georgie e della sua barchetta è una nuvola di sangue nell’acqua che allaga la via di fronte a casa. Il trauma della sua scomparsa, inspiegabile, è il punto di partenza della storia e dell’avventura in cui suo fratello Bill (Jeaden Lieberher), balbuziente, coinvolge la gang dei Losers, gli sfigati – uno loquacissimo e occhialuto, uno terrorizzato dei germi, uno afroamericano, uno ebreo e uno grasso che è nuovo della scuola; a cui si aggiunge Bev, con i capelli rossi e che non ha paura di niente se non del papà che la aspetta a casa ed è quasi peggio di Pennywise. I dialoghi buffi tra loro, le avventure, i genitori tremendi, la lotta a sassate contro i bulli della classe sono riuscitissimi e al cuore del film, intrepido e malinconico, come un’estate –o l’infanzia- che sta per finire.

Nightmare n 5 dice l’insegna del cinema sulla sonnolente Main Street di Derry. E in effetti, il Pennywise di Muschietti, che secondo King irrompe nel paesino del Maine da una dimensione parallela antica di migliaia di anni, deve molto anche a Freddy Krueger. Con l’aiuto del digitale e dell’amore per il realismo fantastico proprio letteratura sudameriana, il regista di Mama, e protetto di Guillermo Del Toro, visualizza in modo più esplicito come «il mostro» non sia altro che l’incarnazione delle paure dei bambini. Pennywise con i suoi palloni colorati è solo una delle sue facce. Come King, Del Toro e gli autori dei migliori adattamenti kinghiani (Romero, Carpenter, Cronenber) anche Mischietti ha un’idea alta, politica, del genere. Gli sfigati, i marginali, i diversi, sono gli eroi. La (loro) unione fa la forza.