La prima impressione è che ci sia in corso una partita a mosca cieca: il signor Tema-del-ministero (per dire) che, bendato, prova a toccare quelli che gli stanno intorno e si muovono, si sottraggono, sfuggono: si chiamano tutti Novecento. In breve: il Novecento ha tante forme e non si lascia acchiappare.

E così sfilano uno dopo l’altro il vecchio Ungaretti (quello della poesia scelta, non bellissima, era un Ungaretti giovane, ma lui ha quel famoso e rugoso aspetto da vecchio così iconico che lo abbiamo mandato a memoria) e Sciascia con Il giorno della civetta: così si mettono a posto prima e seconda parte del secolo.

Sciascia è anche una prima spruzzata di mafia, che torna imponente (manco fosse il più vero carattere degli italiani) con il tema di attualità, affidato al nome-simbolo del generale Dalla Chiesa. Di modo che sembra di sfogliare un numero tipico di rivista tedesca, con piatto di spaghetti condito alla mafiosa e a forma di stivale. Che poi, per carità, va benissimo che di ciò si discuta, anche se pare un argomento che invita automaticamente allo sdegno, e non si sa se nella valutazione conterà il grado di sdegno o chissà che cosa. L’altro tema di attualità sceglie un altro simbolo, Gino Bartali: e le categorie tirate in campo, sport, storia e società, sono di quelle che tutti conoscono e sulle quali tutti hanno qualcosa da dire: benissimo (non ironicamente). Poi si sa anche che il patrimonio artistico fa il vanto della nazione: dunque se ne parli, accompagnandosi con le riflessioni di uno storico dell’arte come Tomaso Montanari. O si mediti, affidandosi a Sloman e Fernbach sulle illusioni della conoscenza e sui pericoli del nucleare.

Insomma argomenti disparati ma come attratti da un centro, che si può forse individuare nell’ultima traccia, che parte da uno scritto di Corrado Stajano e invita a pensare per bene a che cosa sia mai stata la vita nel secolo scorso. Ecco qua: il Novecento che c’è in varie forme e modi e non si lascia afferrare. Anche adesso che si è fatto memoria e che parlarne non è propriamente stare sull’attualità (e che ci si trattenga dall’attualizzare a tutti i costi non cessa di sembrare un merito).

Si tratta di un secolo controverso e non assestato, mobile: ne spuntano significati diversi a ogni svolta e a ogni piega. Ora: si dice che la scuola debba maturare competenze, ovvero strumentazioni capaci di funzionare passando dall’uno all’altro argomento. Mi chiedo se ciò non somigli un po’ troppo al vecchio tema, che invitava a scrivere su argomenti spesso sconosciuti: bastava mettere in pagina un discorso ben organizzato ed era tutto.

Di conseguenza ci si può anche domandare se non è meglio che competenze e conoscenze stiano ben strette e abbarbicate le une alle altre.
Con questo siamo al punto. Infatti la seconda impressione è che o ci si decide a rivedere seriamente i programmi, facendo studiare il Novecento come merita, o è inutile e dannoso inzeppare le prove d’esame con richiami a poeti e a scrittori e a concetti chiave del secolo passato. Ciò deve incominciare dalla formazione degli insegnanti: nell’università letteratura italiana contemporanea o storia contemporanea sono materie che spesso non riescono a entrare nei piani di studio, farciti di materie che insistono sulle competenze (molto in generale) e trascurano le conoscenze. Inoltre, le tabelle ministeriali per l’accesso all’insegnamento poco considerano tali discipline, che hanno un modo specifico di essere insegnate e apprese, al pari delle altre.

In più, il secolo breve si è molto allungato, e le ore per affrontare il sapere «dalle origini ai nostri giorni» sono sempre quelle. La causa non può essere affidata al volontarismo di pochi o molti docenti di buona volontà, né è ammissibile che insegnanti di cattiva volontà trascurino queste cose. Hai voglia poi a pensare belle proposte su Ungà e su Sciascia e sulla strage delle illusioni e su Bartali e magari anche su Coppi. Chi gliele insegna queste cose, come meritano di essere insegnate, ai ragazzi? Chi gliele insegna prima che diventino una traccia per la maturità? Forse è una bella proposta invitare a ripensare un po’ l’università senza cedere a nuove scartoffie da protocollare, ripensando insieme la scuola senza, anche, qui cedere alle medesime scartoffie.