Nel primo atto, scena quinta, di Hamlet, il fantasma di re Amleto, padre del giovane principe di Danimarca, afferma che mentre la virtù non potrà mai corrompersi, «la lascivia, per quanto a braccetto di un angelo radioso» è destinata a giacere in un «letto celeste e cibarsi di immondizia». La parola che usa Shakespeare è garbage, giunta col tempo, nell’inglese moderno, a significare non solo il pattume, ma anche «ciarpame, balle, fesserie». Lo stesso accade al lemma shit, così spesso mal tradotto nei nostri film doppiati, in cui quasi sempre rimanda proprio all’ambito delle stupidaggini, più che a una dimensione puramente scatologica.
Una quasi ambiguità che trae in inganno. Molti anni fa il critico marxista Terry Eagleton si divertì a giocare col significato incerto di un cartello della metro di Londra che recitava, «refuse to be put in the bin»: intimava, ovviamente, di «gettare i rifiuti nel cestino», ma la grammatica poteva anche permettere di leggervi un invito di tutt’altro tipo: «rifiutatevi di essere buttati nel cestino». Entrambi consigli utili, non c’è che dire, e di una saggezza per certi versi complementare.

Esce in queste settimane, per la collana «Atlante letterario» dell’editrice La Scuola, un importante libro di Alessandro Zaccuri che fa riflettere sui tanti valori aggiunti di ciò che spesso e con troppa faciloneria consideriamo scarto: Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura (pp. 174, euro 14,50). Il critico prende in considerazione una miriade di rappresentazioni della mondezza, e si perita, soprattutto nei primi capitoli, di giocare molto con l’ambiguità dell’etimo connesso, ovvero «mondo»: contrario di «immondo», se preso come aggettivo, ma anche, se considerato sostantivo, della dimensione celeste e di quella universale. Un universo che rimanda all’infinitudine del caos; e sappiamo bene quanto questo abbia a che fare con l’infinita spazzatura mondana che ci circonda. Ma «caos» è forse legato para-etimologicamente anche a «cosmesi», ricorda l’autore, il che complica, e non poco, le cose.

Se fosse solo una questione estetica, un qualunque ri-cercatore di scarti avrebbe di che soddisfare la sua curiosità; a partire dai concetti di sublime e orrido, passando per gli elogi della bruttezza, fino ad arrivare alla sua «storia», compilata da Umberto Eco qualche anno fa. Il problema è che quel sudiciume di cui ci piace disfarci ha implicazioni etiche, economiche, e sociali di ampio respiro e intricata complessità. Zaccuri pare suggerire che un approccio utile alla sistematizzazione del problema dev’essere prima di tutto culturale. Il libro è infatti una rassegna del tema a partire dalla cultura della classicità, per arrivare a quella dell’età post-moderna o del tardo capitalismo, come usa dire.

Uno dei capitoli più interessanti è sul mito di Filottete, sulla sua condizione di emarginato a causa della purulenta e maleolente ferita che rischia di infettare, non tanto dal punto di vista fisiologico, quanto morale, la comunità da cui è estraniato. Ma a questo particolare rifiuto umano capita di essere anche molto prezioso, perché il possesso del suo arco, l’arco di Eracle, è condizione per la conquista di Troia da parte dei greci. A differenziare i rifiuti chi può esser mandato se non lo scaltro Odisseo? Non stupisce che la sua traduzione o riscrittura moderna da parte di James Joyce fornisca anch’essa non pochi chiarimenti sul valore degli scarti: «non per niente, nell’Ulisse il viaggio di Leopold Bloom attraverso Dublino prende le mosse dalla tazza del water».

Il senso scatologico di tanta letteratura di oggi e del recente passato, ma anche di molto cinema, sembra in certi casi sostituire perfino l’escatologia. Ma a ben vedere, il libro di Zaccuri è in grado di fondere le due dimensioni. È il caso del capitolo sulla «pietra scartata» destinata a divenire «testata d’angolo», un feticcio attraverso cui siamo in grado di avvertire «la sacralità che si annida in ogni rifiuto e in ogni rifiutato». La lente è quella delle recenti riflessioni di Bergoglio sulla «cultura dello scarto», che gettano luce critica su un’attualità in cui, quanto è odioso percepire sembra destinato a restare nelle periferie del vero.
In un percorso a ostacoli che passa anche attraverso un’interessante lettura sinottica di Calvino e Pasolini, il testo suggerisce come un’accettazione completa del reale possa partire soltanto da una presa di coscienza del fatto che «la spazzatura – l’immondizia, il rimasuglio, la risulta – fa parte» del reale. Una visione in linea nientemeno che con le opinioni di Shakespeare, il quale nel Giulio Cesare ammonì: «quale immondizia, Roma, che scarti e quali rifiuti, quando serve da vile materia per illuminare cosa tanto abietta come Cesare». Mai monito giunse più saggio, in vista del romano ballottaggio