In Disincanto programmato (Nulla Die, pp.81, euro 11) Stefan Mocanu colloca all’interno di una cornice onirica presenze materiali, personaggi e oggetti concretamente intesi, per il verso di un incessante mascheramento dei primi in presenze che rasentano l’astrazione e dei secondi in qualcosa di vitale e esorbitante il loro valore d’uso o collocazione nel repertorio del consueto. Egli denota piuttosto che connotare, offre angoli di visuale eterocliti e ipnagogici in un flusso icastico ora lene come un unguento guaritore, ora sanguigno e ruvido.

Il reale è scomposto e ricomposto con un’azione cui presiede sì la fantasia, ma anche la necessità di dislocare il senso e la prospettiva del visibile in una zona crepuscolare in cui tutto può accadere e niente è ciò che sembra: ogni ente è trasfuso di una forma di panpsichismo che conferisce anima anche a presenze inanimate, talvolta rendendole imprigionate nel grido pietrigno di una paralisi fuori dal tempo e, altrove, vive di vita propria entro un ordine simbolico che scardina i paradigmi dell’ordinario. Ciò che appare, qui, non è mortifera cronaca del fattuale, ma l’occasione irripetibile di vederlo attraverso la lente caleidoscopica di un conferimento di senso e fisionomia che reinventano l’antico tema ontologico del rapporto tra Soggetto e Oggetto, alla luce del fatto che questi due termini possono invertirsi in ogni istante, e che il Soggetto ha una natura erratica e promiscua.

Come in un quadro di Velasquez o in una lirica di Rilke, qui gli oggetti non solo divengono tesorieri di ricordi e vita vissuta (nell’epoca dell’usa e getta questa dimensione appare bandita), ma parlano una lingua addomesticata dall’uso, struggente e familiare. L’astrattismo di Mocanu, differentemente dall’arte di tanto Novecento, genera sensiva ipertrofia di percezioni, con polimorfo rigoglio che passa da una galleria di immagini tali da camuffare, aggirandola, la semplice datità materiale di ciò che rappresentano; pronte a testimoniare della vita sotto angolazioni inedite e significati esopicamente espressi.

Il nascondimento qui, è simile a quello di una potenza nietzschiana e lambisce il dionisiaco ben lungi dal concetto pirandelliano di maschera, ovvero nel cuore di una dimensione sperimentante e ludica, liberatoria e sediziosa: se una maschera cade è per lasciare posto a un’altra con un’esuberanza creativa che eccede di sé e invera prossimità, infine, e vicinanza del reale entro il perfetto coincidere di evento e senso, liberati dall’ingannevole attesa di qualcosa di là dal venire e restituiti al loro identico ripetersi (affermarsi) nella concretezza non mediata della volontà di esistere.

Scrive Mocanu con una chiusa para-baudelairiana: “Adesso ho nel cuore un fuoco e una spada/ esso è pronto a tagliare e bruciare. /Morderò l’anima dei miei simili / come carne di rozzi animali. / Ho bisogno del sangue loro / per sporcarmi le suole. / Vi odio amati animali, / innocenti ruminatori di proverbi indecenti! / Vi odio almeno quanto vi somiglio”.