Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, l’esercito popolare cinese represse con la violenza dei carri armati la protesta di massa che dal 26 aprile e per iniziativa degli studenti che volevano celebrare la morte dell’ex segretario del Partito comunista Hu Yaobang, si era insediata e manifestava ormai da settimane sulla piazza Tian An men.

Fu un bagno di sangue, quello dei giovani studenti che avevano dato il via alla protesta, ma alla fine la maggior parte delle vittime furono gli operai – le fonti ufficiali parlarono di 300 morti, ma altre fonti, sia interne che esterne, più veridicamente hanno raccontato invece di migliaia di vittime. Quel che non poteva davvero sopportare la nuova leadership cinese guidata da Deng Xiaoping – il modernizzatore filo-occidentale che era tornato al potere alla fine degli anni ’70 dopo essere stato cacciato dal movimento della Rivoluzione culturale nata contro l’occupazione da parte del partito di tutta la sfera politica e contro la «via capitalistica di Deng» – era l’estensione della protesta, ormai diffusa in tutto il Paese e preceduta, un mese prima dalla sanguinosa rivolta operaia di Changsha.

Di questa protesta sociale la Tian An Men sarà insieme catalizzatore, simbolo e detonatore. Da quel momento in poi le rivolte fino ai nostri giorni sono state, secondo le stesse fonti ufficiali cinesi – decine e decine di migliaia – come ha sempre ricordato la nostra Angela Pascucci.

Nell’89 l’estensione e la radicalità della mobilitazione sociale metteva in discussione due principi fondamentali della svolta denghista: da una parte le modernizzazioni (industria, agricoltura, difesa, scienza/tecnologia) avviate con l’attesa della innominabile «quinta» modernizzazione – la democratizzazione della politica e della società su cui aveva insistito il movimento del Muro della Democrazia già nel 1979, anche quello represso da Deng; e dall’altra l’unità del Partito comunista cinese che la grande mobilitazione in atto metteva in discussione. Né si poteva mutuare la svolta che Gorbaciov, in visita in Cina proprio a metà maggio, rappresentava in Urss.

Gli occhi dei media internazionali si limitarono a vedere la raffigurazione in cartapesta della statua della libertà, quella americana, eretta sulla Tian An Men da gruppi di studenti e la vernice lanciata su un solo ritratto di Mao. Ma in piazza c’era ben altro. Oltre a migliaia di immagini di Mao e bandiere rosse, c’erano operai, contadini immigrati, donne, c’era l’agorà, la pratica della democrazia dei soggetti colpiti dalle riforme denghiste.

C’era l’intera rappresentazione del malcontento della nuova Cina, devastata da modello distorto che dall’inizio degli anni ’80 Deng aveva avviato insieme alla dirigenza del partito guidato da Zhao Ziyang – poi schierato contro la repressione della protesta.

La svolta di Deng Xiaoping – una accumulazione su base di mercato per avviare poi le basi del socialismo cinese – si era concretizzata dall’inizio degli anni ’80 con la cancellazione delle 60 mila Comuni popolari e l’avvio della distribuzione del lavoro nelle campagne su base produttivistica e non più egualitaria; con il doppio sistema dei prezzi, quelli minimi sotto controllo dello stato e invece di mercato quelli delle materie prime (anticamera di una vasta corruzione di sistema); con, l’introduzione delle «zone economiche speciali» aperte agli investimenti capitalistici esterni; l’inizio delle migrazioni di massa dell’ordine di centinaia di milioni di persone verso le città «speciali» a disposizione dell’ipersfruttamento delle multinazionali, con l’impoverimento delle grande Cina dell’interno, stravolgendo l’equilibrio esistente tra campagne e città; la costruzione di una nuova classe di super-ricchi con l’azzeramento della «pentola di ferro», il welfare minimo ma egualitario per tutti.

Le trasformazioni sociali e le contraddizioni che ne deriveranno riguardano la Cina di oggi, diventata di fatto l’unico paese realmente capitalista sulla faccia del mondo, con i profitti e l’elevato Pil (un miraggio per l’occidente) reinvestiti. L’attuale patto sociale in Cina poggia sulla violenza «nascosta» esercitata in quei giorni dell’inizio di giugno 1989, sulla Tian An Men.

È vero, quel modello cinese di trasformazione del «socialismo reale» – che potremmo chiamare capitalismo di partito – centrato sulla sola crescita economica non è fallito come l’iniziativa in Urss di Michail Gorbaciov – con perestrojka, glasnost e Congresso dei deputati del popolo – rivolta al cambiamento della sola sfera politica; ma l’alto Pil raggiunto, l’iperproduttivismo e ora la pur importante «Via della Seta», non ripagano la nuova leadership «armoniosa» di Xi Jinping dei disastri provocati con la distruzione dell’ambiente in Cina, con la voragine della diseguaglianza dilagante e con la ricerca spasmodica e concorrenziale di materie prime nel mondo.

L’attuale realtà cinese mostra i termini di uno sviluppo che per esistere deve dividere in modo diseguale un miliardo e 400milioni di esseri umani e deve distruggere e rapinare le risorse energetiche. Noi, a partire dal massacro della Tian An Men, possiamo interrogarci: a quale prezzo?