Sull’Europa non spira più la bonanza finanziaria che aveva illuso sul ritorno della crescita. Annullate le vacanze, riprendete in mano gli scontrini e le agendine dei risparmi, a settembre ricominciano gli esami. E partiranno i tagli. Il problema non è solo italiano, anche se l’Italia ha un grosso problema al quale il governo non vuole pensare: per fine anno una manovra finanzaria extra-strong che oscilla dai 7 ai 24 miliardi di euro, a seconda delle stime piovute negli ultimi mesi sul capo di Renzi. Il problema è europeo, e in primo luogo tedesco.

Cronaca di una settimana turbolenta

Nel vecchio continente giovedì scorso è stata una giornata in cui una farfalla ha scatenato una tempesta. È successo in Portogallo dove il Banco Espirito Santo, la prima banca per capitalizzazione nel paese, è stata sospesa dalla Borsa di Lisbona per una perdita del 17%. Cosa è successo? Ha ritardato il pagamento a pochi clienti degli interessi sulle obbligazioni della controllante lussemburghese – la Espirito Santo International. Si stima che siano in ballo 2,5 miliardi di euro in obbligazioni. Gli investitori temono di perdere i bond, chiedono alla banca di essere tutelati. Nessuna risposta dall’altro capo del telefono.

Allarme generale. Arrivano i soccorsi. Il Fondo Monetario Internazionale arriva sul luogo del delitto. E rassicura: tranquilli, il sistema bancario portoghese è in grado di sostenere la crisi, aiutato come sempre dai capitali messi a disposizione dallo Stato dietro il quale c’è la contraerea di Mario Draghi in posizione di fuoco con la sua Bce.

Ma nessuno ci crede. Giovedì la borsa di Lisbona è crollata del 4% e scatena il finimondo in tutta Europa. L’indice italiano ha perso il 2,11%, Madrid il 2%, tutta l’Europa del Sud si inabissa, terrorizzata. Anche perché non si sa nulla di quello che sta accadendo a Lisbona e alla dinastia di banchieri diretta da Santo Salgado, 70 anni. Il Banco Espirito Santo, si apprende dal Financial Times, è un «ascesso» che minaccia di contagiare la credibilità internazionale portoghese e la sua «graduale ripresa da tre anni di depressione».

Ad avere messo in ginocchio le borse dell’Europa meridionale, è un dubbio forse dovuto ad una mera mancanza di informazioni, o forse dall’annuncio di un fallimento da ripagare con i soldi dei contribuenti portoghesi. Ma ciò umilia le speranze su uno dei campioncini del rigore protetti dalla Commissione Ue e dalla Bce. Solo due mesi fa, infatti, il Portogallo era stato portato in trinfo per avere applicato il piano di salvataggio imposto dalla Troika in cambio di un prestito da 78 miliardi di euro. Per il paese è stata una catastrofe. Per la Troika un tripudio.

Al culmine dei festeggiamenti a Lisbona è stato concesso di tornare sul mercato del debito, dopo l’Irlanda. Gli alunni diligenti dell’austerità devono essere premiati. Ventiquattro mesi dopo l’alunno ha messo una bomba sotto gli indici di borsa reduci da rally favolosi. E che giovedì hanno venduto tutto il vendibile. Guadagnando sulle scommesse di fallimento in Portogallo.

Ritorno sulla terra

Giovedì è arrivata una nuova mazzata sulla testa di Renzi e del suo ministro dell’Economia Padoan. L’Istat ha comunicato che la produzione industriale italiana a maggio è crollata dell’1,2% rispetto al mese precedente. È il risultato peggiore dal novembre 2012 e una discesa dell’1,8% rispetto al 2013. Sono le montagne russe della manifattura, esposta ai tornadi finanziari che investono le esportazioni, sulla cui vitalità il Pd e i lieti annunciatori della «crescita» hanno scommesso nel circo mediatico.

La comunicazione dell’Istat è la pietra tombale sulle residue speranze della crescita nel secondo trimestre dell’anno. In queste condizioni è ormai un sogno lontano quell’avventurosa scommessa fatta dal governo ad aprile nel Documento di Economia e Finanza (dEF): nel 2014 il Pil sarebbe cresciuto dello 0,8%. A fine anno sarà, probabilmente, allo 0,3%. Forse meno, se il secondo trimestre dell’anno si è chiuso a -0,1%. Lo scenario per la fine dell’anno è problematico. Nel primo trimestre del 2014 il tasso di disoccupazione ha toccato il 13,9% (+ 0,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), con quella giovanile al 46%. Al Sud siamo più vicini alla Grecia che al resto del paese: tasso generale al 21,7%, che sale fino al 60,9% tra i giovani.

A questo punto quelli che Renzi chiama i «rosiconi» si sono dati da fare. E non sono «rosiconi» qualsiasi. Al Wall Street Journal sembra chiaro che la Commissione Europea, alla cui composizione Renzi sta alacremente lavorando proponendo la giovane Mogherini nel ruolo inutile di capo della diplomazia, non concederà alcuna apertura sul fronte dei regolamenti del bilancio. Un bel colpo per l’inquilino di Palazzo Chigi, proprio dai cultori del neoliberismo anglosassoni non certo simpatetici con l’ordoliberismo protestante tedesco. In nome del rigore non si può chiedere la flessibilità del patto di stabilità, anche quando tale flessibilità si risolve in un rinvio al pareggio di bilancio al 2015 e allo scomputo dei soli cofinaziamenti nazionali ai fondi Ue esclusi dal conteggio del deficit e poco altro.

Germania zoppicante

I problemi di Renzi sono enormi e lo hanno portato in un vicolo cieco. Ma non sono solo problemi italiani. Perchè la vera protagonista di questo maledetto giovedì in cui le borse dell’Europa meridionali sono state messe in ginocchio da una farfalla lusitana, è stata la super-potenza tedesca. Il problema del paese della Merkel è che gli ordini dell’industria sono stagnanti e in calo all’estero, in particolare sui mercati emergenti. E questo preoccupa gli osservatori visto che quell’affaticata «ripresina» di cui si parla in Europa si regge esattamente sull’esportazioni manifatturiere tedesche, vero polmone dell’economia europa in recessione. La crisi è di domanda, nei paesi europei e in quelli extra-europei. Secondo gli analisti nella seconda parte dell’anno l’economia tedesca dovrebbe ripartire e piazzare un aumento poco sotto l’1% del Pil, per continuare nel 2015 la sua ascesa.

Ma come fa notare l’Economist, il tallone d’Achille della Germania sono gli investimenti che sono in calo da cinque trimestri consecutivi e stentano a ripartire. Il problema è stato più volte analizzato sia dall’Ocse che dal Fondo Monetario. A Berlino c’è carenza di capitali. Si parla, per l’esattezza, di «capitale umano» e con questa nozione neoliberista si intende «competenze». Ebbene, in molte industrie c’è penuria di queste competenze. Non c’è solo carenza negli investimenti nell’industria, ma anche nell’educazione. Gli investimenti nell’educazione sono inferiori rispetto a quelli di altri paesi avanzati.

Ad esempio, le persone che hanno una formazione terziaria, in altre parole una laurea, sono meno di un terzo, ben al di sotto delle nazioni avanzate sostiene l’Ocse. L’Economist si duole dello scarso «appetito» che hanno i tedeschi per «nuove riforme». In un paese impoverito, con salari sempre più bassi, dove l’agenda 2010 delle liberalizzazioni e della precarizzazione ha scavato a fondo, è comprensibile. Per Eurobarometro, l’84% dei tedeschi sarebbe «soddisfatto» per lo stato della loro economia e c’è poca voglia di proseguire, aprendo le porte ad una nuova ondata di incertezza e povertà.

C’è anzi voglia di ottenere finalmente qualcosa indietro dallo Stato. E per questo si sta discutendo della riforma delle pensioni che paermetterà ad alcune categorie di andare in pensione a 63 e non a 65 anni.

Un continente in apnea

Il giovedì da incubo ha rivelato che Italia, Spagna e Portogallo non sono gli unici paesi a reggersi in equilibrio macroeconomico precario. Basta un soffio per rovesciare le sorti anche di una corazzata come la Germania, esposta all’intemperie del commercio globale. La Cina ha registrato, sempre giovedì, una contrazione dell’interscambio commerciale.

Dopo quattro anni di aiuti di Stato, di politiche monetarie «accomodanti» che hanno drogato i mercati con soldi creati dal nulla da parte delle banche centrali, tutto sta rallentando. La stagnazione regna sovrana in Europa e il rigore non farà sconti a nessuno. Nessuna fuga in avanti. Sulla costa c’è chi aspetta la tempesta in arrivo.