Interprete originale e traduttore in Francia a partire dagli anni Settanta dei testi legati all’operaismo italiano, Yann Moulier-Boutang ha pubblicato, durante gli anni Ottanta e Novanta, lavori importanti alla nuova condizione migratoria e alla divisione internazionale del lavoro. A partire dagli anni Duemila si è interessato all’analisi del capitalismo cognitivo e ha dato vigore agli studi di ecologia politica. Nel 2000 ha fondato la rivista «Multitudes», di cui è tutt’ora direttore. Tra i suoi titoli più significativi vanno ricordati Dalla schiavitù al lavoro salariato (manifestolibri, 2002) e Le capitalisme cognitif (Editions d’Amsterdam). Sua è Althusser: une biographie (Grasset), mentre alla fine degli anni Novanta del Novecento ha curato, con François Matheron, la pubblicazione delle Lettres à Franca, 1961-1973 di Louis Altuhesser per l’editore Stock-Imec.

La crisi che scuote il mondo non sembra ormai finire più. Il discorso convenzionale pone sul banco degli accusati la separazione progressiva tra una cosiddetta economia reale, buona e produttiva, e una finanza semplicemente parassitaria. Da parte tua rifiuti ogni distinzione così netta, ritenendo che non ci si possa più limitare a invocare un fantasmagorico ritorno al reale….

Bisogna certo distinguere la parte finanziaria dell’economia reale da quella non finanziaria. Tuttavia, entrambe sono pienamente reali. Del credito, che è la sostanza della moneta la cui forma consiste nella più o meno grande liquidità o esigibilità, genera immediatamente possibilità d’investimento, salari, acquisti di beni e servizi. È però accaduto che la componente finanziaria dell’economia reale diventa via via più gigantesca mano a mano che cresce l’interdipendenza delle singole economia nazionali. Per 150 miliardi di dollari quotidiani di Pil mondiale e altrettanto di commercio di beni, si hanno 1500 miliardi di transazioni che coprono il rischio di cambio e 3700 miliardi di transazioni su delle promesse concernenti il futuro, i famosi prodotti derivati. Questo era l’ordine di grandezza nel 2009 e malgrado la scomparsa della metà di 2000 hedge funds, l’ordine di grandezza del rapporto tra produzione e finanza è rimasto uguale.

La verità è che affinché ciò che taluni chiamano «l’economia reale» diventi realtà bisogna che la finanza attivi questo armamentario impressionante. La domanda da farsi è però: l’economia funzionerebbe meglio senza una finanza che tanti a sinistra descrivono come un parassita inutile che si potrebbe appendere a testa in giù? Diffido del sofisma già denunciato da Kant secondo il quale la colomba volerebbe meglio nel vuoto. Ciò che merita di essere pensato e pesato sono le trasformazioni dell’economia in blocco (sfera finanziaria e non finanziaria). Innumerevoli analisi sulla finanziarizzazione dell’economia nella globalizzazione considerano soltanto un lato del problema: le ripercussioni (negative) della crescita della sfera finanziaria sulla cosiddetta economia reale, spesso ridotta a un settore industriale promosso al rango di realtà unica creatrice di ricchezza.

Questa ipertrofia della finanza corrisponde al passaggio dalla produzione di ricchezza centrata sullo sfruttamento della forza-lavoro manifatturiera e subordinata a livello salariale allo sfruttamento immediatamente sociale, globale e complesso della forza inventiva e dell’intelligenza collettiva in rete, ciò che chiamo la «pollinizzazione umana dell’interazione». Questa nuova sfera dell’economia dei complessi immateriali (non codificabili in diritti di proprietà intellettuale) è mille volte più produttiva (in senso realmente economico) della vecchia sfera dell’economia politica. Questo nuovo continente di esternalità positive della cooperazione umana è oggetto di un’abile captazione da parte di ciò che denomino il capitalismo cognitivo, il quale deve creare piattaforme di «pollinizzazione» (le reti sociali, i motori di ricerca, la cloud di dati e informazioni) per rivelare gli immateriali più profittevoli ed estrarre (datamining, datamapping) innovazione.

La crisi attuale, dunque, non decreta la fine di un capitalismo cognitivo…

La crisi attuale e il suo svolgimento costituiscono una delle mute del drago capitalistico attraverso la quale il capitalismo cognitivo regola senza pietà i suoi conti con il suo vecchio avatar industriale. È nella e grazie alla crisi dei subprimes che le imprese giganti dell’immateriale hanno conquistato la vetta del capitalismo borsistico mondiale tenendo l’automobile sempre più a distanza. Il declassamento radicale del capitalismo industriale è stato innanzitutto nutrito dalla sua ingovernabilità sociale nelle fabbriche, poi dall’emergenza dell’economia dell’immateriale e infine dall’urgenza della transizione ecologica. Ora, il capitalismo si gioca tutto su quest’ultimo punto (come la nuova dinastia cinese): o si dimostra capace di fornire risposte intelligenti alla sfida ecologica oppure sbatterà veramente contro il muro. E qui la Cina è paradigmatica: questo paese ha risposto alla sfida dell’uscita dalla povertà diventando la fabbrica del mondo ed effettuando in 35 anni ciò che il capitalismo industriale ha impiegato due secoli e mezzo per realizzare nei paesi sviluppati. Ora però si trova di fronte a una sfida temibile: i problemi ecologici raggiungono ormai dimensioni tali per cui l’avvelenamento alimentare, la rarefazione dell’acqua, l’erosione dei suoli, l’inquinamento chimico, la secca impossibilità di perseguire i tassi di motorizzazione occidentali, la speculazione immobiliare, la bulimia energetica, lo sfruttamento forsennato del carbone, rappresentano le minacce più serie al «mandato dal cielo» attribuito al partito comunista. In fin dei conti la Cina offre una sintesi straordinaria dei problemi universali del pianeta.

Torniamo all’Europa. Se si potesse magicamente piazzare Keynes a Bruxelles, quale New Deal potremmo escogitare per il presente? Quali forme potrebbe allora assumere un keynesismo dell’immateriale, un keynesismo verde? Un keynesismo nel quale i limiti naturali e le dimensioni di razza, genere e classe giochino un ruolo più importante rispetto al semplice volume della produzione?

Avevo proposto negli anni Ottanta, quando ero un giovane assistente di economia di Jean-Paul Fitoussi, la formula «Keynes a Bruxelles». L’intuizione era corretta, anche se la Bce non esisteva ancora come bastione borbonico da assalire. Più che mai una politica di crescita intelligente presuppone, prima ancora che ci si metta a discutere del suo contenuto e di un programma keynesiano, la definizione di una forma istituzionale capace di sorreggerla. Credo che un programma keynesiano a Bruxelles abbia bisogno di appoggiarsi su un salto istituzionale. Tuttavia, abbiamo già una resistibile ascesa dello spettro (benvenuto) di Keynes con ciò che chiamo il trionfo del federalismo rampante, il quale sta battendo sia l’ipotesi confederalista che quella sovranista dell’Unione europea.

La crisi del debito sovrano degli Stati, conseguenza del salvataggio del sistema finanziario dal tracollo dei prodotti finanziari come i subprimes, ha segnato una tappa decisiva nella via del federalismo rampante e una sorta di colpo di Stato, un vero e proprio 18 Brumaio: la Bce, di fronte all’incapacità degli Stati del Consiglio di prendere rapidamente contromisure forti di sostegno agli Stati membri in difficoltà, in quanto istituzione federale, ha preso il potere. Si è cioè affrancata dalla tutela «nazionale» (francese e/o tedesca), delineando velocemente una posizione comune; ha aggirato i poteri formali che le erano stati attribuiti dai trattati, giustificando il ricorso a metodi «non convenzionali» a causa di una situazione «eccezionale»; e, infine, ha operato una svolta a centottanta gradi per quanto concerne la sostanza della sua politica.

Quando uno stato di eccezione dura più di sei anni, ci si trova però di fronte a un cambiamento di regime provocato da un colpo di Stato. L’istituzione federale concepita come custode del tempio monetarista, incarnazione di un virulento polo anti-keynesiano, si è mangiata il suo cappello «friedmaniano» iniettando un volume di liquidità semplicemente impensabile fino a quel momento. È intervenuta prima sulla solvibilità delle banche, poi su quella degli Stati per salvare l’euro, accompagnando ogni provvedimento con un messaggio inequivocabile da parte del banchiere centrale. Di fronte ai piccoli passi in avanti, seguiti da altrettanti passi indietro, da parte del Consiglio e della Commissione, la Bce ha varcato il Rubicone riacquistando sul mercato secondario i buoni del tesoro emessi dagli Stati in difficoltà, onde evitare la palese violazione dei trattati. Ora, la Bce di Mario Draghi ha abbassato il tasso di base allo 0,25% e ha invocato esattamente la stessa giustificazione: lo stato d’eccezione durerà fino a quando vigerà il rischio di deflazione e di un livello di disoccupazione troppo elevato. Siamo così passati in dieci anni da una Bce «tedesca» a una Bce quasi keynesiana.

Il reddito di base potrebbe stabilizzare il capitalismo cognitivo e riconciliarlo con un’economia fondata sulla conoscenza?

Contrariamente a ciò che pensano alcuni colleghi economisti – per gli italiani penso a Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli – non vedo una contraddizione tra un elevato reddito di base incondizionato (900 euro a testa in Francia) – che permetterebbe di ripensare lo Stato Provvidenza (la disoccupazione, le pensioni, la protezione sociale) – e lo sviluppo del capitalismo cognitivo. Affinché quest’ultimo capti facilmente una parte importante delle esternalità positive della rete e dell’interazione umana intercettate da dispositivi digitali e affinché faccia lavorare durevolmente la forza inventiva di geeks, hackers e altri precari delle classi creative, sono necessarie piattaforme di «pollinizzazione»: in altri termini serve un’ape-economia, un’economia dell’ambiente, altrimenti finisce col trasformarsi in un parassita o in un vampiro dei nuovi beni comuni digitali.

Per difendere la costituzione di beni comuni digitali, di dati pubblici, la loro protezione, l’«open source» costituisce una falsa soluzione, la quale si base su un principio di terra nullius dove le imprese possono saccheggiare l’inventività sociale e umana alla stregua di quelle case farmaceutiche o di quelle multinazionali dei sementi che praticano una biopirateria sfrenata degli ecosistemi complessi. Ora, una delle acquisizioni della teoria postcoloniale e delle recenti sollevazioni dei popoli indigeni consiste nell’aver ottenuto dalle corti costituzionali della maggior parte dei paesi di colonizzazione la ricusa del principio di terra nullius e l’apertura della via a un indennizzo delle grandi spoliazioni delle loro terre comunitarie.