Dieci anni fa diverse piazze del mondo arabo venivano invase dalle masse. Era una conquista fisica, ma anche simbolica, di uno spazio pubblico fino ad allora dominato dal «colore unico» del regime di turno. I graffiti, arte pubblica e di strada per eccellenza, sono stati spesso la manifestazione visiva, policroma, di una moltitudine di voci che si alzavano, desiderose di affermare la propria esistenza come soggetti pubblici.

Come in tutti i luoghi del mondo interessati da processi rivoluzionari, lo spazio veniva reclamato anche attraverso slogan, scritte anonime, versi poetici e interventi artistici sui muri delle città.

Toponomastiche rivoluzionarie riscrivevano la realtà: a colpi di bomboletta spray, la piazza della stazione di Tunisi diventava «Piazza del Povero» e la Piazza 7 novembre 1987, data del colpo di stato del dittatore Ben Ali, veniva corretta in «Piazza Mohamed Bouazizi, martire ed eroe», come il giovane che si era dato fuoco innescando la rivoluzione.

Nel frattempo, in Yemen, la piazza occupata davanti all’università di Sanaa diventava «Piazza del Cambiamento», mentre in Bahrein la Rotonda della Perla di Manama, rasa al suolo dai carri armati sauditi e dalle ruspe del re, veniva ribattezzata «Rotonda dei Martiri».

Al Cairo, poi, quella via Mohamed Mahmoud dove l’esercito aveva bucato gli occhi dei manifestanti con i proiettili di gomma si trasformava in «Via Occhi della Libertà» e, poco più in là, i muretti di cemento eretti dai militari per bloccare l’afflusso dei manifestanti in piazza Tahrir diventavano oggetto della campagna Mafish gidar («Non ci sono muri») con la quale vi si dipingevano collettivamente enormi illusioni ottiche che raffiguravano spazi aperti, giovani che danzavano, o anche solo la prospettiva della strada che proseguiva, come se il muro non ci fosse.

Non era un esercizio decorativo, ma una sfida, lanciata dagli artisti, a non accettare prigioni e a continuare a immaginare utopie.

È vero che molte di quelle utopie si sono poi sgretolate. Ma le parentesi di libertà d’espressione hanno scoperchiato nel mondo arabo dibattiti importanti su temi un tempo tabù e destinati probabilmente a riemergere: questioni di genere, il corpo delle donne, laicismo e islam, rapporto con gli ex colonizzatori, ricostruzione della propria storia oltre le versioni ufficiali dei regimi, ricomposizione della propria identità postcoloniale tra elementi panarabi, non arabi, nazionali, occidentali, prearabi, preislamici, meticci…

Il pionieristico collettivo tunisino Ahl al-Kahf, nel 2011, pubblicò su Facebook un manifesto artistico dove dialogavano referenti culturali delle due sponde del Mediterraneo, gli stessi che spesso il gruppo ha accostato visivamente in ritratti accompagnati da brevi citazioni sui muri di Tunisi: Gilles Deleuze, Michel Foucault, Mohamed Chokri, Toni Negri, Edward Said, Mahmud Darwish, Muin Bseiso, Mhadheb Sboui…

Tutti parte di una cultura di resistenza universale, numi tutelari che indicano la strada. In Egitto Ammar Abo Bakr e Alaa Awad hanno esplorato identità nazionali alternative, il primo trasponendo nei suoi murales l’iconografia copta e quella popolare naif dei villaggi del sud egiziano, il secondo dipingendo affreschi in stile faraonico che, tra battaglie, folle di barbuti e cortei funebri, sembravano usciti dalle tombe della Valle dei Re di Luxor, ma erano, invece, sottili commenti all’attualità.

Ovunque sono ricomparse le icone dei rivoluzionari del passato, da Omar al-Mukhtar in Libia a Farhat Hached, fondatore del sindacato, in Tunisia, insieme ai «martiri» di ieri e di oggi, fino ad arrivare ai 102 desaparecidos yemeniti raffigurati uno per uno dall’artista Murad Subay su un muro di Sanaa nel 2012.

A volte, infatti, anche dopo tragiche sconfitte i muri hanno continuato a custodire, clandestinamente, memorie dei percorsi rivoluzionari. Il monumento della Perla, che sorgeva nell’omonima rotonda in Bahrein ed era diventato il simbolo delle proteste, è stato demolito per volontà reale: ma non si può uccidere un’idea, così sui muri la Perla si è moltiplicata in mille rappresentazioni stilizzate.

Nell’estate del 2013, al-Sisi ha sancito il suo colpo di stato al Cairo con l’orrendo massacro di Rabi’a al-Adawiyya, altra piazza rasa al suolo, dove si riunivano i Fratelli Musulmani. Ebbene, il simbolo di una mano che indica il quattro (in arabo Rabi’a vuol dire anche «quarta») si trova a tutt’oggi sui muri dei quattro angoli del pianeta.

Sì, molti fuochi rivoluzionari di dieci anni fa sono stati soffocati dalla repressione o da guerre civili interminabili – e diversi autori di graffiti, come altre voci libere in genere, sono stati arrestati, assassinati o esiliati. Ma nuove fiaccole si sono accese nel 2019 nelle piazze – e sui muri – di paesi come Algeria, Sudan, Iraq e Libano, con modalità, simboli e parole chiave in piena continuità con quelle del 2011. Ancora una volta, i giovani e le donne scesi in piazza hanno definito il loro agire con la parola araba thawra, «rivoluzione».

Così, thawra si è letto nel 2019 in Sudan nei murales dell’artista Alaa Satir, in slogan come «Noi siamo la rivoluzione e la rivoluzione continua», o «La rivoluzione è donna», frasi tracciate accanto a corpi cartooneschi di donne con i pugni alzati, che si stagliano bianche su ampi sfondi colorati.

Suggeriscono forse alla mente un parallelo con l’immagine della studentessa Alaa Saleh che, in un celebre video, intona slogan vestita di bianco, in piedi sul tetto di un’auto, in una piazza di Khartum affollata di manifestanti: un’icona della rivoluzione sudanese, a sua volta riproposta subito sui muri di Idlib, in Siria, dal gruppo Kesh Malek, come personificazione della Libertà che, si legge, «non è più una statua, è viva e fatta di carne e sangue».

In effetti, nel 2012 era già apparsa una personificazione della thawra in un famoso stencil di El Teneen al Cairo: sempre donna, era una supereroina col mantello e la scritta mustamirra, «continua». E del resto «La voce della donna è thawra» si leggeva in Tunisia ed Egitto nel 2011: sfottò del motto islamista per cui la voce della donna sarebbe ‘awra, ovvero parte di quelle cose intime che si è tenute a nascondere in pubblico.

Sui muri di Beirut, invece, nel 2019 ha rifatto capolino l’ironico simbolo della mucca, già ampiamente usato sui muri di Tunisi dieci anni fa e riferimento al termine omonimo, ma desueto, thawra, femmina del toro: insomma, si vede mucca, ma si legge «rivoluzione». E sui muri di Algeri, dal 2019, si ritrovano i meccanismi di recupero della propria storia e identità, con la comparsa dei ritratti di partigiani del passato come Ali La Pointe e Larbi Ben M’hidi.

In Tunisia, dove tutto è iniziato, e forse l’unico paese dove il varco di libertà d’espressione aperto nel 2011 è ancora aperto – pur in una situazione economica, sociale e politica disastrosa – i graffiti oggi sono sì in calo, perché hanno perso la forza iniziale di rottura e per una disillusione generale verso il dibattito politico; tuttavia, per ogni lotta con una minima risonanza nazionale si continuano a leggere parole chiave come tam-tam sui muri della capitale.

E la protesta in queste settimane è ripresa. Dieci anni dopo, le piazze non sono taciturne.