Trent’anni fa la finale di Coppa Campioni, oggi Champions League, ebbe come epilogo una tragedia con alcune decine di morti allo stadio Heysel di Bruxelles. Poco prima del calcio d’inizio, in un piccolo stadio assiepato fino all’inverosimile, le tifoseria bianconera e quella dei Reds del Liverpool erano divisi da una recinsione del tutto inconsistente per frenare la furia degli hooligans inglesi, che in massa avevano deciso di attaccare il settore bianconero. Lo spostamento improvviso di alcune migliaia di corpi, cui si aggiunse quello dei bianconeri, provocò il cedimento delle tribune, il soffocamento e lo schiacciamento dei tifosi che cercavano una via di fuga. Morirono in tanti, ma i più furono gli juventini. Una morte ignorata dalla spettacolo della partita, che si disputò comunque, in nome dello spettacolo che doveva continuare. L’indicazione che arrivò dalla Rai al telecronista fu quella di tenersi sul vago, di ignorare il più possibile il riferimento a quei corpi privi di vita, che giacevano uno di fianco all’altro sotto le tribune, questa volta senza distinzione di tifo. Corpi inermi che indossavano le maglie della Juventus o del Liverpool, e al collo le sciarpe delle rispettive squadre, mentre le due compagini in campo disputavano la finale. La Juve usufruì di un rigore realizzato da Platinì, alzò la coppa al cielo e fece un giro festoso intorno al campo.

Quella tragedia fu rapidamente rimossa dalla chiacchiera del Bar Sport Italia, che proprio in quegli anni prendeva piede, dalle Tv private al nefasto Processo del Lunedi di Biscardi in onda su Rai 3. Una tragedia caduta nell’oblio, sostituita dalla costruzione festosa degli stadi di Italia ’90 e dalle tangenti che rimpinguavano le casse dei partiti della prima repubblica.

A chi appartenevano quei corpi posti uno a fianco all’altro all’Heysel? Alle periferie degradate di Torino e di Liverpool, dove la classe operaia aveva rispettivamente perso con i 35 giorni dello sciopero alla Fiat e la rimozione della scala mobile, e con il pugno di ferro di Margaret Thatcher sullo sciopero dei minatori inglesi.

Anthony Cartwright, scrittore nato nel Black Country inglese e già noto al pubblico italiano con il romanzo sportivo Heartland, ambientato durante i mondiali di calcio del 2002, e Gian Luca Favetto di Torino, da angolazioni diverse raccontano il lungo viaggio dei tifosi dalle rispettive città fino all’Heysel nel bel libro Il giorno perduto (66thand2nd, 18 euro).

L’attesa e la lunga preparazione sono scanditi dai due scrittori attraverso i protagonisti, giorno per giorno lungo l’ultima settimana fino alla partita della morte. Quegli anni Ottanta vacui e terribili, i peggiori del secolo scorso, dopo quelli del fascismo, sono uguali un po’ dappertutto nel vecchio continente: “Se qualcuno vi racconta che gli anni Ottanta sono stati felici, non credetegli. Sono stati terribili. Per un paio di generazioni contemporaneamente in tutta Europa hanno rappresentato la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’illusione. Ma i film degli anni Ottanta sono stati formidabili. Il cinema degli anni Ottanta è l’adolescenza che resiste” dice Domenico, uno dei ragazzi che con gli amici parte in auto da Torino alla volta di Bruxelles. Superato il confine, in Francia la sosta a casa di parenti dei ragazzi torinesi è d’obbligo, zii e cugini sparsi in un’area geografica circoscritta, manodopera meridionale chiamata in forze a Milano e Torino, nel sud della Francia e in Belgio. In viaggio verso Bruxelles anche Christy, un ragazzo solitario di Liverpool alla ricerca vana di un lavoro, che vive sulle rive del Mersey e per qualche giorno lascia il luogo piatto e grigio dove vive con suo padre: “Il treno scivola in un paese di interminabili schiere di case popolari, casermoni lunghi e stretti e facciate fatte con la ghiaia tipiche del dopoguerra”.

Antony Cartwright è nato e vissuto in quei luoghi e come pochi sa descrivere la vita nelle case piccole e fatiscenti della working class, trascina con forza il lettore nello squallore degli agglomerati urbani nati vicini alle miniere:” Ci sono miniere anche nel Kent, vicino a Dover, è lì che è diretto… Christy ha seguito lo sciopero con suo padre, sera dopo sera al telegiornale. Non c’era molto da dire, papà si stava ammalando. Guardavano insieme il telegiornale poi il quiz o un film con Harold Lloyd o Tarzan, un po’ di sollievo in bianco e nero dalla dura realtà che c’era fuori, la dura realtà che avevano dentro. Mangiavano toast con fagioli e bevevano tè”.

Ai chiassosi torinesi, descritti da Gian Luca Favetto, capaci di far silenzio solo tra le tombe di un cimitero belga, a poche decine di chilometri da Bruxelles, per ricordare 262 minatori gran parte dei quali italiani, morti a seguito della tragedia di Marcinelle, di cui l’anno prossimo cade il sessantesimo anniversario, Cartrwright contrappone il silenzio intorno allo stadio, quando non è giorno di partita, tanto adorato da Christy, una sensazione simile alla massa dei corpi che sono a stretto contatto tra loro poco prima del fischio d’inizio, quando ruotano intorno al pilone per l’accesso allo stadio, come i 39 corpi messi in fila uno accanto all’altro dei tifosi periti all’Heysel il 29 maggio del 1985. Un giorno perduto, che il romanzo di Antony Cartwrigth e Gian Luca Favetto, scritto a montaggio alternato, restituisce alla nostra memoria indebolita dalla chiacchiera sportiva quotidiana.