Pioveva, quella notte, quando uccisero il Txato. La moglie, Bittori, udì i suoi passi mentre scendeva le scale di casa e poi, all’improvviso, quattro colpi di pistola. Corse di sotto e lo trovò in una pozza di sangue. Allora si mise a urlare, ma non c’era nessuno: la strada, deserta, le finestre chiuse: «così mi sono messa a parlargli e pensa com’ero sconvolta che gli ho detto: ti amo: Non ce lo siamo mai detti. Neanche quando eravamo fidanzati. Non ci veniva. Ce lo dimostravamo e punto».

È questo fatto, l’assassinio del Txato, il fulcro, l’evento spartiacque del nuovo romanzo di Fernando Aramburu, Patria, libro di straordinario interesse e insieme riflessione dolente sul dramma del terrorismo basco, che ha avuto un travolgente successo editoriale in Spagna e ora esce in Italia nella efficace traduzione di Bruno Arpaia (Guanda, pp. 632, euro 19,00). Da tempo Aramburu vive in Germania ed è forse questa distanza fisica, più che il tempo intercorso, ad aver permesso allo scrittore basco di realizzare un romanzo di grande portata sulla vicenda più amara della sua terra.
Txato, Bittori…non ci sono cognomi ma solo nomi di persone in questa storia, che vede come protagoniste due famiglie tanto legate da parere una sola. Bittori aveva infatti un’amica del cuore, Miren, con cui da sempre condivideva tutto. Le due, nei loro discorsi inarrestabili di adolescenti avevano fantasticato anche di un progetto comune: farsi suore, insieme. Poi, nella loro vita erano entrati gli uomini, Txato per Bittori e Joxian per Miren, due tipi diversi (attivo e intelligente il primo, uomo senza qualità il secondo) ma accomunati da una grande passione per la bicicletta e abituati a passare le serate a giocare a carte oppure, veri amigos cenantes, al circolo enogastronomico. Poi erano arrivati i figli, due per Bittori, Nerea e Xabier, tre per Miren, Arantxa, Gorka e Joxe Mari.

A ridosso di San Sebastián

Sono queste nove figure e le loro vite intrecciate a sostenere una storia convincente e coinvolgente, ambientata in un piccolo centro, anch’esso senza nome, a ridosso di San Sebastián, la capitale della provincia di Guipúzcoa: un paese-comunità, stretto attorno alla chiesa, dove l’ambiente è al tempo stesso solidale e costipante come lo sono i piccoli centri di provincia. La vita, scandita dai rintocchi del campanile, procede costante e tranquilla finché pian piano l’irruzione del militantismo armato comincia a turbarla profondamente. È a casa di Miren che si avverte inizialmente il mutamento, perché lì Joxe Mari, il piccolo dei figli, si radicalizza progressivamente, partecipando alla kale borroka, la lotta di strada fatta di lanci di molotov, incendi, sabotaggi. E poi ancora, vittima della logica di gruppo e dell’ideale romantico di Euskal Herria, la patria indipendente, lascia il lavoro e l’amata pallamano per entrare in clandestinità e divenire capo di un talde, un commando dell’ETA.

Ma che le cose sono cambiate lo si percepisce soprattutto a casa del Txato, un uomo cocciuto e intraprendente, che aveva messo su una piccola azienda di trasporti. Ricevute le prime richieste dall’ETA di pagare una «tassa rivoluzionaria» destinata a sostenere la causa indipendentista, aveva all’inizio ceduto. Poi però, cresciute le pretese degli estortori, aveva deciso di smettere. Era iniziata allora contro di lui una sistematica azione distruttrice, intessuta di lettere minatorie, di diffamazione e di progressivo isolamento; un giorno su un muro appare una scritta emblematica Txato spia. Gli amici allora prendono a evitarlo e lui smette di cercarli. Una volta, per caso, incontra Joxian per strada che, a mo’ di saluto, fa un’alzata di sopracciglia, come a dire mi fermerei a parlare con te ma…
L’omicidio del Txato, è dunque una morte annunciata, il previsto epilogo di un avvelenamento collettivo, fatto di parole e di gesti minuti. La violenza diffusa, l’imbarbarimento collettivo, la pratica della delazione, l’intolleranza verso l’altro da sé sono raccontati senza enfasi, sia dal lato delle vittime sia da quello dei militanti dell’Eta; qui, però, il racconto è forse meno efficace: senza nascondere nulla, né la ferocia terroristica né le torture poliziesche, stenta a fornire una comprensione intima delle ragioni profonde e lungamente condivise della lotta indipendentista.

Il lettore partecipa di questa storia tremenda e dolorosa non in diretta, come un racconto in sequenza, ma in modo obliquo. Il romanzo si compone infatti di 125 micro-capitoli, lunghi da quattro a sei o sette pagine, e non collocati in ordine cronologico ma variamente disposti in una sorta di vai e vieni tra un oggi, post 2011 (data della rinuncia alla lotta armata da parte dell’ETA) e i tanti ieri di una lunga storia.

È un procedere frammentario, funzionale a dare spazio alla memoria, alla ricostruzione intima, alla rivisitazione retrospettiva che si mescola con incontri, amori, fatti quotidiani, separazioni. La morte di Txato spacca le due famiglie e divide le due madri-matriarche, che non si parlano più: da un lato Bittori, che cerca di elaborare il suo lutto terribile e dall’altro Miren, madre di un figlio terrorista finito presto in carcere e anche lei divenuta abertzale, indipendentista (per amore materno, pensa Bittori). Entrambe reagiscono in modo straordinariamente simile, e cioè parlando da sole. Miren dialoga in chiesa con la statua di Sant’Ignazio di Loyola e se la prende con lui perché non realizza prontamente le sue imploranti richieste. Bittori parla con la gatta Ikatza, rivolgendosi alla foto del Txato, che chiama amorevolmente txatito, e poi, regolarmente, parla a voce alta sulla sua tomba, al cimitero.
In questi dialoghi prende corpo pian piano l’iniziativa di Bittori, che non si arrende, che vuole sapere la verità sulla morte del Txato, su chi l’abbia ucciso. Bellissime e emozionanti le pagine che descrivono il suo rientro furtivo nel paese abbandonato dopo la morte del marito, pagine che rendono mirabilmente i colori, gli odori, le luci, le sensazioni di un passato testardamente mischiato al presente.

Dubbi e certezze infrante

Proprio come il ritorno di un pendolo, hanno inizio da un certo punto in avanti una serie di riavvicinamenti, all’inizio timidi, frustranti, e soprattutto produttori di immediati litigi: Joxe Mari col fratello Garka, da cui lo divide tutto e che accusa, essendo omosessuale, di infangare la famiglia; Miren con la figlia Arantxa, critica della scelta materna di isolare la famiglia del Txato; Bittori con Joxe Mari, cui scrive in carcere per sapere se era stato lui ad uccidere Txato (non era stato lui, ma in precedenza una volta c’era andato vicino). Proprio come la marea del nazionalismo si era infiltrata nella vita delle persone, travolgendola, così lentamente, la risacca della memoria e l’ostinata ricerca della verità, battente come la pioggia atlantica, fratturano le certezze sedimentate, insinuando dubbi, anche nell’irriducibile Joxe Mari, che finisce per scrivere una lettera di perdono a Bittori. E sebbene questo processo di commemorazione e di riavvicinamento non porti all’equivalenza tra vittime e carnefici, indica tuttavia la strada di una possibile riconciliazione, sancita dal finale abbraccio fugace di Miren e Bittori all’uscita dalla messa: «si dissero qualcosa? Niente, non si dissero niente».