Io Franco l’ho conosciuto sul set di Accattone, nella primavera del ’61. Marinavo la scuola per andare a vedere er Pasola, per conoscerlo, per parlarci. Pier Paolo era sempre tutt’ accimato, in giacca e cravatta e questo contrastava con i vestiti dimessi degli attori improvvisati, come contrastava la sua bonomia con la veemenza di quei coatti. Io ero insistente e quando mi rivedeva Franco usava sempre lo stesso intercalare: «Aà, ma allora ce riochi?». La mia attenzione era attirata da Franca Pasut che incarnava il mio ideale erotico: bionda, ceciona ceciona e io non sapevo a chi dare i resti, se tormentare Franco, presentarmi compunto da Pier Paolo o seguire la scia vaporosa di Stella. Avevo avuto giusto in quei giorni una prima indecifrabile esperienza erotica con la mia dirimpettaia Ombretta che aveva la stessa età di Pasut e questo mi fece venire la malsana idea che potessi propormi come partner credibile, con i miei 13 anni, della giovane attrice. Fu quando misi, con un po’ di difficoltà, la mia mano sulla spalla di Franca che lui intervenne: «A regazzi’, ma te ne voi anna’?!». Franca non fu scortese, veniva da un ambiente borghese e studiava all’Università e dispensò un sorriso aperto, dolce e comprensivo che per mesi fu involontariamente responsabile di una tempesta ormonale difficilmente arginabile.
Negli anni, me adulto,ci vedevamo con una certa frequenza. Andavamo a pranzo al «La perla» a Fiumicino e pagava sempre lui. Conoscendo Torino per averci vissuto, mi chiedeva sempre se per caso conoscessi una certa Luisa che aveva conosciuto negli studi RAI; immagino che di Luisa a Torino ce ne fosse più di una e allora lui glissava con il sorriso malandro che lo contraddistingueva.
Per un periodo gli stetti appresso per farlo recitare in un mio film già scritto ma per il quale cercavo una produzione. Lui era sempre disponibile e mi incitava a non demordere, che bussassi pure a tutte le porte che lui era sempre lì, disposto e disponibile.
Franco era uno scaltro, seppe costruirsi una discreta carriera e fu chiamato da registi che hanno fatto la storia del cinema: Fellini, Petri, Lizzani. Fece persino una parte ne Il padrino di Coppola epperò non possedeva, a mio parere, registri attoriali raffinati. Funzionò magnificamente invece nel cinema pasoliniano e in quello diretto poi dal fratello Sergio poiché la sua era una maschera della banlieue, mai come nel suo caso un attore riuscì a trasportare sullo schermo l’umanità dolente degli emarginati, di coloro che erano stati relegati nei ghetti di mussoliniana memoria.
Franco usava sempre il dialetto e raramente pronunciava per intero un infinito affidando sempre al vento la desinenza -re. L’atteggiamento da guascone s’era, negli anni, addolcito fino ad irreggimentarsi in un melanconico fatalismo fatto di silenzi prolungati, di boh, di una compostezza inusuale per uno abituato, come lui, ad aggredire la vita. Quando ci vedevamo in tre, con Sergio, lui non parlava quasi mai in una sorta di rassegnata accettazione dell’ubi maior. Annuiva, bofonchiava ma raramente entrava nell’agone. Verosimilmente per una forma di rispetto per il fratello ma, anche, per una forma di atavica pigrizia che rendeva faticoso un suo intervento.
Anni dopo, ad Umbertide, ebbi la ventura di trascorrere un paio di serate con Alfredo Bini. Con lui parlammo a lungo di Accattone e di Franco. Pochi sanno che gli attori o non erano pagati o retribuiti al minimo e allora, finite le riprese, molti di loro tornavano ad occupazioni ‘antiche’. Succedeva pure che qualcuno venisse arrestato per un furto, una rapina e allora le riprese venivano interrotte per aspettare il rilascio del malcapitato.
Adele Cambria mi disse a più riprese -e lo scrisse anche- che inizialmente quegli attori improvvisati – e, tra loro, anche Franco – non amavano Pier Paolo e più di una volta ebbero a respingerlo quando, finita la giornata, Pasolini manifestava il desiderio di finire la giornata insieme, in qualche trattoria. Parlavamo anche di questo con Franco e lui annuiva, diceva che era vero; solo nel tempo aveva recuperato l’umanità del suo mèntore ma, soprattutto, l’importanza che quello aveva rivestito nella sua vita. E una volta, sul molo, vedendo i barconi dei pescatori rientrare, pianse parlando di questo ed io non seppi mai se fosse sincero o se un po’ recitasse.
Erano almeno dieci anni che non lo vedevo più. L’ultima volta fu con Sergio, a pranzo in un ristorante della darsena. Non parlava quasi più e portava evidenti i segni della paralisi provocata dall’ictus. Quel giorno fummo immortalati dalla macchina fotografica di una sorta di loro badante e mi rimane il ricordo di questa strana icona di tre maschi come scappati da una colonia penale: lo scrivente con l’espressione becera di un narcos sudamericano, Sergio assorto e Franco con il tipico sorriso da ‘cheese’ ,ma entrambi come presaghi che qualcuno, prima o poi, tornerà a riprenderli. Li riaccompagnai a casa. Sedemmo. Mentre pensavo di chiedere un secondo caffè Sergio, rilassato, mi precedette: «Mbé, adesso che se semo detti tutto, te ne poi pure anna’…». Lì per lì ci rimasi quasi male ma realizzai presto che non era scortesia specie quando, a seguire,Franco con una mano mimò la chiusura di una lampo e, con un sorriso sbilenco, farfugliò: «Preciso…». Quando ho saputo che Franco era morto ho pensato a quella giornata e al cancelletto che m’ero richiuso alle spalle dopo averli salutati.