Una grossa scimmia, dal pelo bianco come neve. A quale metafora rimanderà mai questa immagine ossessiva che ingombra la locandina e il programma di sala di Ti regalo la mia morte, Veronika, (ancora stasera ore 19.45 e domani ore 15.30) e dunque va a occupare la fantasia dello spettatore prima ancora dell’inizio dello spettacolo? Avrà tempo di assorbire immagine e domanda, se non di trovare qualche risposta, lo spettatore della nuova creazione di Antonio Latella che ha debuttato sul palcoscenico dello Storchi, prodotta da Ert. Sei di quei candidi gorilla si sono infatti stretti da subito intorno alla protagonista del titolo e non si muoveranno da lì fin quasi alla fine, pure se altri corpi ne verranno fuori un poco per volta.

Veronika è Veronika Voss, protagonista eponima di uno degli ultimi film di Rainer Werner Fassbinder. «Liberamente ispirato alla poetica del cinema fassbinderiano» dice il sottotitolo esplicativo del testo, scritto dallo stesso Latella insieme a Federico Bellini. Cioè è anche Monica Piseddu che si è fatta avanti al centro del proscenio, davanti a una fila di poltroncine di legno da vecchio cinematografo, quando ancora le luci della sala sono accese. Per dire: aiutatemi, ho paura. Ma anche: non recito più nessuna parte, vorrei solo silenzio. O per abbandonarsi ai prevedibili «insulti al pubblico», cose come: mostri, voi puzzate.

Non è solo l’andare dentro e fuori dalla parte, non infrequente sulla scena contemporanea. Qui la metateatralità è elevata all’ennesima potenza, alla metafora della metafora, perché siamo dentro un teatro che riproduce una sala cinematografica dove si proietta il making of del film che sta alla base dello spettacolo teatrale, in un continuo e anche un po’ verboso rimescolamento dei piani narrativi. E infatti da un lato è collocato un proiettore cinematografico che può scorrere su una rotaia a filo della ribalta, a evocare fisicamente il medium che fa da cerniera a questa sorta di porta girevole. Il plot del film, si sa, ruota intorno a un’attrice tedesca celebre al tempo del Terzo Reich e ora però dimenticata (siamo negli anni cinquanta del secolo scorso), che cerca conforto all’ossessione del passato perduto nell’illusione di un nuovo amore e nella morfina che si procura clandestinamente in una clinica che forse la tiene in ostaggio.

Ma questa trama è continuamente decostruita nel tessuto testuale, in un gioco di specchi in cui si moltiplicano rimandi e citazioni. Fanno capolino il Viale del tramonto di Billy Wilder che fu certo una fonte d’ispirazione per il film e il nome di Sybille Schmitz, l’attrice del «pessimo» cinema di propaganda nazista che fu un po’ il prototipo di Veronika Voss. Si cita Cechov (quando compare una pistola, prima o poi deve sparare) e il clima delle sue pièce. Si scherza sul realismo (almeno di mangia) ovviamente assente. E naturalmente Each man kills the thing he loves che ormai più che a Oscar Wilde appartiene alla voce di Jeanne Moreau sulla musica di Peer Raben. Mentre qualcuno sommessamente canta le parole a cui forse aspira Veronika. Di questo sono fatti i ricordi. One more kiss, one more sigh. One girl, one boy / some grief, some joy. Lei fa un po’ Valentina Cortese quando accentua la naturale pulsione a recitare.

È dunque quel rumoroso coro scimmiesco che genera i personaggi, ognuno con il suo nome a programma. La dottoressa Katz e l’infermiera della clinica e il regista ebreo, con accenti d’epoca che forse tirano in ballo il presunto antisemitismo di RWF… Emergono in mutande dalle loro pellicce albine, senza mai abbandonarle del tutto. Siamo nel territorio del tragico, verrebbe da dire, sia pure un tragico che oggi sappiamo impossibile e non può allora che assumere una forma derisoria. (Nel titolo originale del film stava non per caso l’intraducibile Sehnsucht del romanticismo tedesco, lo struggimento inconsolabile che può diventare desiderio di morte, estraneo a qualsiasi eroe tragico).

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Piuttosto il coro si identifica sempre più con la figura dello scomparso demiurgo. Con il quale a sua volta deve sentirsi in sintonia anche il nostro regista, sarà forse per una sorta di affinità poetica, nell’oscillare anche geografico fra il sentimentalismo meridionale e la solida misura berlinese. E infatti di tanto in tanto Latella vi ritorna, c’erano già stati il genetiano Querelle e Le lacrime amare di Petra von Kant, in un viaggio a ritroso a quando ancora il cinema di RWF prendeva spunto dal lavoro con l’Antiteater della giovanissima Hanna Schygulla. Qui la prova di forza sta nella volontà di misurarsi con un proprio testo.

Intanto le seggioline vengono rimosse dalla scena. Cala il fondale su cui avevamo visto proiettarsi anche giochi di ombre. Sola ormai, Veronika regala la sua morte, così simile in fondo a quella del suo creatore. È finita? No, cala dall’alto un albero dalle fronde altrettanto candide. Alla sua ombra le donne dei film di Fassbinder in rigonfi abiti ottocenteschi preparano un picnic in attesa che arrivi anche Veronika. Dove siamo, si chiedono ancora una volta gli attori. Forse nel cimitero di Bogenhausen a Monaco, dove si trova la tomba dell’artista bavarese. Al teatro Storchi di Modena, risponde uno più pragmatico. Arriva anche il giovanotto con cui lei aveva immaginato quell’ultima storia d’amore, un giornalista sportivo, l’unico venuto dall’esterno, estraneo all’animalità del coro. E quando la pistola di Cechov spara, sarà lui a cadere. Finalmente sono tutti morti, dice chissà chi. Ora possiamo andare.